Dieci donne
Feltrinelli, Milano, 2011
pp. 285, € 9, 00.
Dieci donne. Dieci voci che raccontano, si raccontano. Tutte con la paura di non avere abbasanza da dire o di non sapere come dirlo. Dieci ritratti, o meglio autoritratti, che si tratteggiano con sincerità e discrezione, nello studio della loro psicoterapeuta, spazio "protetto" che legittima sofferenza e condivisione, accoglie senza pregiudizi e senza pretese le loro storie, porta alla luce i nodi del loro animo, i grumi di lacrime non versate, i drammi silenziosi affrontati ogni giorno con eroismo umile e tenace. Dieci narratrici, anzi undici, perchè vi è una narratrice ulteriore, che sottomette consapevolmente la propria identità a quella legata al nome femminile che dà titolo al decimo capitolo ("alcune persone non sono nate per per diventare protagoniste ma per convivere con chi lo è davvero", p. 256).
Marcela Serrano porta sulla pagina dieci storie che celebrano con dignità una femminilità umiliata ma non arresa, fragile ma non sconfitta, "stanca" ma attaccata alla vita, mentre fuori imperversa indifferente la Storia grande, del passato cileno e del resto del mondo, che le colpisce, le travolge ma in qualche modo le sospinge tutte allo stesso approdo, allo stesso porto, alla parentesi di quiete rappresentata dalla seduta di gruppo nella stanza di Natasha:
"qualcuna avrà lasciato il letto vuoto quando era ancora buio, qualcun'altra avrà lasciato un corpo tiepido e amico [...] Qualcuna avrà fatto colazione in piedi davanti al tavolo della cucina, organizzando la giornata per una casa che avrebbe dovuto fare a meno di lei, un'altra si sarà seduta in tinello, magari qualcuna si sarà portata la tazza o il vassoio a letto, con il giornale trovato davanti alla porta di casa. Probabilmente tutte si saranno affrettate. Guai ad arrivare in ritardo. [...] Avranno preso le medicine come ogni mattina, nella speranza di combattere questa o quella malattia. [...] E tutte tese nello sforzo di essere un pochino più felici. Di guarire. Tutte onestamente impegnate a vivere la vita nel migliore dei modi nonostante quella che hanno avuto in sorte" (p. 13).
Personalità diverse con percorsi differenti alle spalle, che scavalcano le generazioni e attraversano oceani e catene montuose; storie che si sovrappongono al passato delle origini, al destino delle loro madri e nonne, e che si intrecciano con le sorti di altre figure di donne e uomini e incontrate nel corso della loro esistenza, che le hanno solo sfiorate o permeate in modo indelebile, intrappolate con la loro presenza o abbandonate. Madri, mariti, amanti, figli, con le loro malattie, i loro pregiudizi, il loro amore e la loro cattiveria; incontri, delusioni, viaggi, violenze, speranze e paure: gli angoli più tenebrosi della natura femminile si dispiegano tra le pagine di questo libro delicato, ma momento stesso in cui sono tradotti in parole, si illuminano di un'inesausta generosità vitale, dell'inesauribile desiderio di continuare a viversi, a scrivere la propria storia ogni giorno, affrontando la solitudine o le schiavitù della vita condivisa, le proprie inquietudini e scissioni interiori (la "discordanza" di cui parla una delle protagoniste, Guadlupe, a pagina 209).
I loro racconti restano come sospesi in una bolla di sapone, nell'"eccezionalità" della situazione, nello spazio confidenziale che le vede riunite, un'isola nelle esistenze dalle quali sono venute e alle quali ritorneranno. Il tempo del racconto è una "pausa" che serve alle protagoniste (e al lettore) non per dimenticare la vita ma per approfondirla, portandone in superficie i fantasmi, "dicendo" il coraggio incerto e precario del sopravvivere giorno dopo giorno nella ricerca di un equilibrio o di una felicità perduta o impossibile.
Francisca, Mané, Juana, Simona, Layla, Luisa, Guadalupe, Andrea, Ana Rosa, Natasha, ciascuna con il proprio angolo di mondo da proteggere, i propri fantasmi da combattere, la propria ricerca da portare a termine, "gesti tipicamente femminili, con migliaia di anni di apprendistato" (p. 137). Qualcuna di loro ha scelto la solitudine di una casa sulla spiaggia lontana dal mondo, qualcun'altra spera di ritrovare la propria identità e di imparare ad "ascoltarsi" nell'atmosfera di paesaggi lontani, qualcuna vive nel ricordo o nel desiderio di un amore trasformato in favola o miraggio, altre ancora nel desiderio di una "notte" che conceda un po' di riposo; "l'importante è che quando lei -la vita- verrà a cercarmi, in qualunque posto io sia, non mi trovi sconfitta" (p. 231).
Forse la mente è "incurabile" (p. 265) o forse ciascuna può trovare la cura al suo "male di vivere" solo a modo proprio, dentro se stessa, agendo o aspettando, guardandosi indietro o aggrappandosi con fiducia al presente; allora la "terapia" cui esse, "le matte" (come si immaginano di essere soprannominate da chi le osserva dirigersi in gruppo nello studio di Natasha) partecipano, riunite in una stanza, serve loro per ascoltare ciascuna "la ferita dell'altra" (p. 256), per divenire "testimoni" del dolore che le accomuna e le separa dal mondo, perchè tutte imparino a "farsi carico dei propri ricordi" anche se "è un carico pesante" (p. 163).
Non c'è retorica nei loro racconti, non ci sono stereotipi da rispettare o luoghi comuni da reiterare: nessuna professione di fede nei confronti della maternità o della vita di coppia, nessuna pretesa di giustificarsi o presentarsi diversamente da come ciascuna si conosce. Solo un condividere, sinceramente, un ripercorrere le proprie starde per fare bene inanzitutto a se stesse e, in fondo, per sentirsi parte di un intreccio di storie che non terminano, non si "risolvono" nel presente nè si placano nella "terapia", perchè
"continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato. [...] Il passato è un rifugio sicuro. Il passato è una costante tentazione. E tuttuavia il futuro è l'unico posto dove possiamo andare" (p. 257)