Letteratura in cucina

Perchè letteratuta "in cucina"? Perchè è il luogo in cui avviene la maggior parte delle mie letture e delle riflessioni da esse suscitate... d'altronde nell'attesa che cuocia il coniglio (nel tempo eterno che la sua carnina tenera e scialba richiede!), rimestando la polenta, ecc., dovrò pur ingegnarmi a fare altro!!!
Dunque leggo, attrespolata su uno sgabello, avvolta dai vapori e dai profumi... che si mescolano a quello dei libri dando alle pietanze un aroma colto e letterario, e ai racconti un sentore di pappa-buona (e magari anche qualche fogliolina di spezie appiccicata tra una pagina e l'altra!) che permane a ricordo delle occasioni in cui sono stati letti e vissuti.


"Se una notte d'inverno una Cuoca...."

"La cucina è la parte della casa che può dire più cose di te: se fai da mangiare o no (si direbbe di sì, se non tutti i giorni, abbastanza regolarmente), se per te sola o anche per altri (spesso per te sola ma accuratamente come se facessi anche per altri; e qualche volta anche per altri ma con disinvoltura come se lo facessi per te sola), se tendi al minimo indispensabile o alla gastronomia (i tuoi acquisti e armamentari fanno pensare a ricette elaborate ed estrose, almeno nelle intenzioni; non è detto che tu sia golosa, ma l'idea di cenare con due uova al tegame potrebbe metterti tristezza), se stare ai fornelli rappresenta per te una penosa necessità o anche un piacere (la minuscola cucina è attrezzata e disposta in modo da potertici muovere con praticità e senza troppi sforzi, cercando di non fermartici troppo ma anche di poterci stare non di malavoglia). Gli elettrodomestici stanno al loro posto d'utili animali i cui meriti non possono esser dimenticati, anche senza tributar loro un culto speciale. Tra gli utensili si nota qualche estetismo (una panoplia di mezzelune di grandezza decrescente, quando ne basterebbe una) ma in genere gli elementi decorativi sono anche oggetti utili, con poche concessioni al grazioso. Sono le provviste che possono dirci qualcosa di te: un assortimento d'erbe aromatiche, alcune certo d'uso corrente, altre che paiono star lì per completare una collezione; lo stesso si dica per le mostarde; ma sono soprattutto le collane di teste d'aglio appese a portata di mano a indicare un rapporto coi cibi non distratto o generico. Un'occhiata al frigorifero può permettere di raccogliere altri dati preziosi: nei palchetti portauova c'è rimasto un solo uovo; di limoni ce n'è solo mezzo e mezzo secco; insomma, nei rifornimenti esseziali si nota qualche trascuratezza. In compenso c'è crema di marroni, olive nere, un vasetto di selsifis i scorzobianca: è chiaro che nel fare la spesa ti lasci attrarre dalle merci che vedi esposte, più che avere in mente ciò che manca in casa.
Osservando la tua cucina dunque si può ricavare una immagine di te come donna estroversa e lucida, sensuale e metodica, che mette il senso pratico al servizio della fantasia. Qualcuno si potrebbe innamorare di te solo a vedere la tua cucina?..."

(Italo Calvino, "Se una notte d'inverno un viaggiatore")




















"Un chilo e mezzo di grasso d'oca"  

  

Il signor Palomar fa la coda in una charcuterie di Parigi. Sono i giorni delle feste, ma qui la ressa dei clienti è abituale anche in epoche meno canoniche, perchè è uno dei buoni negozi dastronomici della metropoli, miracolosamente sopravvissuto in un quartiere dove l'appiattimento del commercio di massa, le tasse, il basso reddito dei consumatori, e ora la crisi, hanno smantellato a una a una le vecchie botteghe sostituendole con anonimi supermagazzini. 
Aspettando in fila, il signor Palomar contempla i flaconi. Cerca di trovare un posto nei suoi ricordi per il cassoulet, pingue stufato di carni e di fagioli, di cui il grasso d'oca è ingrediente essenziale; [...] alza lo sguardo al soffitto pavesato di salami che pendono da ghirlande natalizie come frutti dai rami del paese della cuccagna. Tutt'intorno sulle alzate di marmo l'abbondanza trionfa nelle forme elaborate dalla civiltà e dall'arte. Nelle fette di paté di selvaggina le corse e i voli della brughiera si fissano per sempre e di sublimano in un arazzo di sapori. Le galantine di fagiano si distendono in cilindri grigiorosa sormontati, per autenticare la propria origine, da due zampe uccellesche come artigli che si protendono da un blasone araldico o da un mobile rinascimentale.
Attraverso gli involucri di gelatina spiccano i grossi nèi di tartufo nero messi in fila come bottoni sulla giubba d'un Pierrot, come note d'una partitura, a costellare le rosee variegate aiole dei patés de foie gras, delle soppressate, delle terrines, le galantine, i ventagli di salmone, i fondi di carciofo guarniti come trofei. Il motivo conduttore dei dischetti di tartufo unifica la varietà delle sostanze come un nereggiare d'abiti da sera in un veglione mascherato, e contrassegna l'abbigliamento da festa dei cibi.
[...]  Lo splendore delle tartine di salmone raggianti di maionese sparisce  inghiottito dalle oscure borse dei clienti.[...]
Il signor Palomar vorrebbe cogliere nei loro sguardi un riflesso della fascinazione di quei tesori, m ai visi e i gesti sono solo impazienti e sfuggenti [...]. Nessuno gli sembra degno della gloria pantagruelica che si dispiega lungo le vetrine e sui banchi. Un'avidità senza gioia nè gioventù li spinge: eppure un legame profondo, atavico esiste tra loro e quei cibi, consustanziali a loro, carne della loro carne.
S'accorge di provare un sentimento molto simile alla gelosia: vorrebbe che dai loro vassoi i paté d'anatra e di lepre dimostrassero di preferire lui agli altri, di riconoscere in lui il solo che merita i loro doni, quei doni che natura e cultura hanno tramandato per millenni e che non devono cadere in mani profane!
[...]
Si guarda attorno aspettando di sentir vibrare un'orchestra di sapori. No, non vibra niente. Tutti quei manicaretti risvegliano in lui ricordi approssimativi e mal distinti, la sua immaginazione non associa istintivamente i sapori alle immagini e ai nomi. Si domanda se la sua ghiottoneria non sia soprattutto mentale, estetica, simbolica. Forse per quanto sinceramente egli ami le galantine, le galantine non lo amano. Sentono che il suo sguardo trasforma ogni vivanda in un documento della storia della civiltà, in un oggetto da museo.
Il signor Palomar vorrebbe che la coda avanzasse più in fretta. Sa che se passa ancora qualche minuto in quel negozio, finirà per convincersi d'essere lui il profano, l'estraneo, lui l'escluso.

("Palomar", Italo Calvino, Mondadori)



"Il museo dei formaggi"
 
«(…) formaggio, il balzo del latte verso l’immortalità»
(Clifton Fadiman, Any Number Can Play, 1957)

«Il formaggio è latte e batteri; tutto il resto è fantasia»
(Isabel Allende, Afrodita, 1997)


Il signor Palomar fa la coda in un negozio di formaggi, a Parigi. Vuole comprare certi formaggini di capra che si conservano sott'olio in piccoli recipienti trasparenti, conditi con varie spezie ed erbe. La fila dei clienti procede lungo un banco dove sono esposti esemplari delle specialità più insolite e disparate. E' un negozio il cui assortimento sembra voler documentare ogni forma di latticino pensabile; già l'insegna "Spécialités froumagères" con quel raro aggettivo arcaico o vernacolo avverte che qui si custodisce l'eredità d'un sapere accumulato da una civiltà attraverso tutta la sua storia e geografia.
Tre o quattro ragazze in grembiule rosa accudiscono i clienti. Appena una è libera, prende a carico il primo della fila e l'invita a dichiarare i suoi desideri [...] l'oggetto dei suoi appetiti precisi e competenti. [...] tutta la fila si sposta avanti d'un passo; e chi finora aveva sostato accanto al "Bleu d'Auvergne" venato di verde viene a trovarsi all'altezza del "Brin d'amour" il cui biancore trattiene fili di paglia secca appiccicati; chi contemplava una palla avvolta in foglie può concentrarsi su un cubo cosparso di cenere. C'è chi dagli incontri con queste fortuite tappe trae ispirazione per nuovi stimoli e nuovi desideri: cambia idea su quel che stava per chiedere o aggiunge una nuova voce alla sua lista; e c'è chi non si lascia distrarre nemmeno per un istante dall'obiettivo che sta perseguendo [...] ciò che lui testardamente vuole.
L'animo di Palomar oscilla tra spinte contrastanti: quella che tende a una conoscenza completa, esaustiva, e potrebbe essere soddisfatta solo assaporando tutte le qualità; o quella che tende a una scelta assoluta, all'identificazione del formaggio che è solo suo, un formaggio che certamente esiste anche se lui ancora non sa riconoscerlo (non sa riconoscersi in esso).
Oppure, oppure: non è questione di scegliere il proprio formaggio ma d'essere scelti. C'è un rapporto reciproco tra formaggio e cliente: ogni formaggio aspetta il suo cliente, si atteggia in modo d'attrarlo, con una sostenutezza o granulosità un po' altezzosa, o al contrario sciogliendosi in un arrendevole abbandono.
Un'ombra di complicità viziosa aleggia intorno: la raffinatezza gustativa e soprattutto olfattiva conosce i suoi momenti di rilassatezza, d'incanaglimento, in cui i formaggi sui loro vassoi sembrano offrirsi come sui divani d'un bordello. Un sogghigno perverso affiora nel compiacimento d'avvilire l'oggetto della propria ghiottoneria con nomignoli imfamanti: crottin, boule de moine, bouton de culotte.
Non è questo il tipo di conoscenza che il signor Palomar è più portato ad approfondire: a lui basterebbe stabilire la semplicità d'un rapporto fisico diretto tra uomo e formaggio. Ma se lui al posto dei formaggi vede nomi di formaggi, concetti di formaggi, significati di formaggi, storie di formaggi, contesti di formaggi, psicologie di formaggi, se - più che sapere- presente che dietro a ogni formaggio ci sia tutto questo, ecco che il suo rapporto diventa molto complicato. 
La formaggeria si presenta a Palomar come un'enciclopedia a un autodidatta; potrebbe memorizzare tutti i nomi, tentare una classificazione a seconda delle forme - a saponetta, a cilindro, a cupola, a palla-, a seconda della cosistenza -secco, burroso, cremoso, venoso, compatto-, a seconda dei materiali estranei coinvolti nella crosta o nella pasta -uva passa, pepe, noci, sesamo, erbe, muffe- , ma questo non l'avvicinerebbe d'un passo alla vera conoscenza, che sta nell'esperienza dei sapori, fatta di memoria e d'immaginazione insieme, e in base ad essa soltanto potrebbe stabilire una scala di gusti, di preferenze e curiosità ed escluzioni.
Dietro a ogni formaggio c'è un pascolo d'un diverso verde sotto un diverso cielo [...] ci sono diversi armenti con le loro stabulazioni e transumanze; ci sono segreti di lavorazione tramandati nei secoli. Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma.
Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua la cui morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezza inesauribile di sinonimi, usi idiomatici, connotazioni e sfumature di significato, come tutte le lingue nutrite dall'apporto di cento dialetti. E' una lingua fatta di cose; la nomenclatura ne è solo un aspetto esteriore, strumentale; ma per il signor Palomar impararsi un po' di nomenclatura resta sempre la prima misura da prendere se vuole fermare un momento le cose che scorrono davanti ai suoi occhi.
Estrae di tasca un taccuino, una penna, comincia a scrivere nomi, a segnare accanto a ogni nome qualche qualifica che permetta di richiamare l'immagine alla memoria; prova anche a disegnare uno schizzo sintetico della forma [...].
- Monsieur! Houhou! Monsieur!- Una giovane formaggiaia vestita di rosa è davanti a lui, assorto nel suo taccuino. E' il suo turno, tocca a lui, nella fila dietro di lui tutti stanno osservando il suo incongruo comportamento e scuotono il capo con l'aria tra ironica e spazientita con cui gli abitanti delle grandi città considerano il numero sempre crescente dei deboli di mente in giro per le strade. 
L'ordinazione elaborata e ghiotta che avava intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta; ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d'incertezza per riafferrarlo in loro balìa.

("Palomar", Italo Calvino, Mondadori)




"Il marmo e il sangue"
Le riflessioni che il negozio del macellaio ispira a chi vi entra con la borsa della spesa coinvolgono cognizioni tramandate per secoli in varie branche del sapere: la competenza delle carni e dei tagli, il miglior modo di cuocere ogni pezzo, i riti che permettono di placare il rimorso per l'uccisione d'altre vite al fine di nutrire la propria. La sapienza macellatrice e quella culinaria appartengono alle scienze esatte, verificabili in base a esperimenti, tenendo conto dei costumi e delle tecniche che variano da paese a paese; la sapienza sacrificale invece è dominata dall'incertezza, e per di più caduta in oblio da secoli, ma pesa sulle coscienze oscuramente, come esigenza inespressa. Una devozione reverente per tutto ciò che riguarda la carne guida il signor Palomar che s'accinge a comprare tre bistecche. Tra i marmi della macelleria egli sosta come in un tempio, conscio che la sua esistenza individuale e la cultura cui egli appartiene sono condizionate da questo luogo. [...] Si succedono il rosso vivo del bue, il rosa chiaro del vitello, il rosso smorto dell'agnello, il rosso cupo del maiale. Avvampano vaste costate, tondi tournedos dallo spessore foderato d'un nastro di lardo, controfiletti agili e slanciati, bistecche armate del loro osso impugnabile, girelli massicci e tutti magri, pezzi da bollito stratificati di magro e di grasso, arrosti che attendono lo spago che li costringa a concentrarsi su se stessi; poi i colori s'attenuano: scaloppe di vitello, lombatine, pezzi di spalla e di petto, tenerumi; ed eco entriamo nel regno dei cosciotti e delle spalle d'agnello; più in là biancheggia una trippa, nereggia un fegato...
[...] Dai ganci pendono corpi squartati a ricordarti che ogni tuo boccone è parte d'un essere alla cui completezza vivente è stato arbitrariamente strappato. 
Il un cartellone al muro, il profilo d'un bue appare come una carta geografica percorsa da linee di confine che delimitano aree d'interesse mangereccio, comprendenti l'intera anatomia dell'animale, esclusi corna e zoccoli. La mappa dell'habitat umano è questa, non meno del planisfero del pianeta, entrambi protocolli che dovrebbero sancire i diritti che l'uomo s'è attribuito, di possesso, spartizione e divoramento senza residui dei continenti terrestri e dei lombi del corpo animale.
Occorre dire che la simbiosi uomo- bue ha raggiunto nei secoli un suo equilibrio (permettendo alle due specie di continuare a moltiplicarsi) sia pur asimmetrico (è vero che l'uomo provvede a nutrire il bue, ma non è tenuto a darglisi in pasto) e ha garantito il fiorire della civiltà detta umana, che almeno per la una sua porzione andrebbe detta umano- bovina (coincidente in parte con quella umano- ovina e ancor più parzialmente con l'umano- suina, secondo le alternative d'una complicata geografia d'interdizioni religiose). Il signor Palomar partecipa a questa simbiosi con lucida coscienza e pieno consenso: pur riconoscendo nella carcassa di bue penzolante la persona del proprio fratello squartato, [...] egli sa d'essere carnivoro, condizionato dalla sua tradizione alimentare a cogliere da un negozio di macellaio la promessa della felicità gustativa, a immagianre osservando queste trance rosseggianti le zebrature che la fiamma lascerà sulle bistecche alla griglia e il piacere del dente nel recidere la fibra brunita.
Un sentimento non esclude l'altro: lo stato d'animo di Palomar che fa la fila nella macelleria è insieme di gioia trattenuta e di timore, di desiderio e di rispetto, di preoccupazione egoistica e di compassione universale, lo stato d'animo che forse altri esprimono nella preghiera.

 ("Palomar", Italo Calvino, Mondadori)





Alla riscoperta della me, piccola lettrice

A tre anni piangevo perchè volevo la Luna. La vedevo lì, bella paffuta e lattescente in cielo, dal balcone della mia cameretta, e mi arrabbiavo perchè nessuno aveva costruito una scala abbastanza alta da permettermi di afferlarla... In fondo che ci voleva?!??! Mi sentivo piccola e impotente, e soprattutto inascoltata! Allungavo le mani verso quella palla luminosa che mi appariva tanto vicina; appena più in là delle mie dita... sarebbe bastato che qualcuno di prendesse in braccio e sarei siuscita a raggiungerla! Crescendo ho smesso di desiderare satelliti, ma ho continuato a "volere la luna", coltivando un sano spirito di insoddisfazione stimolante che forse un giorno mi ci condurrà davvero su quel pallone luminoso e un po' ammaccato... a cercare il senno perduto come Astolfo per Orlando furioso... Nell'attesa di compiere questo viaggio ultreterreno ho scoperto che ci sono mondi altrettanto "esotici", fantastici, straordinari in cui villeggiare per un po', Lune legittimamente desiderabili e scale con un numero di pioli sufficienti da poterle raggiungere. 
Ho imparato a leggere! Ho scoperto quegli oggetti sfaccettati, colorati fuori e spesso pallidi all'interno (come alcuni frutti di paesi lontani) che sono i libri; misteriose mappe di strade d'inchiostro in apparenza parallele, ma in realtà destinate a intrecciarsi, intersecarsi, avvilupparsi in meravigliosi arabeschi mentre le si percorre. E non c'è navigatore satellitare che tenga: bisogna perdersi, almeno un po'... distrarsi un attimo e "perdere laTrebisonda"... tanto in un mare di cellulosa non si annega... e nemmeno in un oceano di duemila pagine!
Ho iniziato a perdermi nei miei libri ("miei" perchè li ho resi tali, ma ciascuno ha il diritto di perdersi nei propri e di percorrere le proprie strade inchiostrate senza pestare i piedi agli altri lettori), e solo così ho iniziato a "trovarmi"... Non dico RI-trovarmi perchè nella beata ingenuità che precede l'età della lettura (quella definibile in greco "dell'alogon zoon", dell'"animale stolto" o "essere privo della parola") credo di non aver avuto nulla da "riscoprire" di me stessa, ma tutto da sondare, conoscere, indovinare e indagare con curiosità. Già, perchè in fondo mi sono sempre considerata una creatura un po' strana, come quegli animali che si vedono nei documentari (lì e solo lì perchè mai nella vita capiterà a nessuno che non sia un naturalista di trovarselo sotto il naso!) e che non si capisce bene se ci ispirino curiosità o perplessa simpatia; o come quegli strumenti che già dal nome si capisce che non sapremmo bene da che parte girarli o come maneggiarli... che so: "astrolabio" o "caleidoscopio"... Bho, alla fine uno rinuncia e li ficca in un cassetto mentale con il falso proposito di rispolverarli più in là. 
E per fortuna che, pur avendo tutta questa confusione in testa, mi hanno chiamata "Chiara"; mi avessero dato nome "Teodolinda" sarei impazzita a sei anni!
Dunque i libri mi hanno piacevolmente confusa (perchè mi hanno introdotta alla conoscenza di me stessa... un gran caos!), abbagliata e affascinata: ho scoperto che non c'è solo la luna ma anche tantissime stelle e altrettanti pianeti sconosciuti, e mondi e personaggi, in continua crescita ed espansione, come l'universo... E che per quanto a lungo potremmo vivere e per quanto a lungo potremmo leggere prima che ci caschino gli occhi non riusciremmo mai ad esaurire tutto ciò che è stato scritto, sarà scritto, potrebbe o dovrebbe essere scritto (è una visione molto ottimista della capacità creativa dell'umanità, lo riconosco!). 
Così ho cominciato a esplorare tanti piccoli- grandi mondi, ad abitare castelli (per aria, su roccia, di carta), a visitare città (visibili, invisibili, immaginarie, reali), a conoscere un sacco di gente interessante e a costruirmi una vita affollatissima!
Ma tutto è partito da una stanza (la stessa dalla quale vedevo la luna). 
E forse tutto è iniziato con un libro, questo libro: "Matilde", un elogio all'intelligenza e alla curiosità infantile, una celebrazione della lettura come una delle esperienze più alte di crescita interiore, di appagamento, di auto-rassicurazione... e anche un po' di compensazione.
Ci sono tanti modi per rendersi "felici": compiere un viaggio, accarezzare un animale (ovvio, magari non una capra...penso piuttosto a un gatto morbito o a un coniglio cicciottello), intrecciare le dita attorno a una tazza di tè caldo (o caffè o cioccolata o latte, ecc ecc), mangiare un pasticcino, accoccolarsi sotto una coperta calda.... e perchè no: rifugiarsi in una biblioteca accogliente, meglio ancora se la bibliotecaria si chiama "signorina Felpa"! Basta dire il nome per sentirsi in pigiama e pantofole, pronti alle coccole!

Dunque GRAZIE "Matilde" per aver insegnato, a me e a tanti altri piccoli/futuri adulti, alcuni di questi momenti di gioia! 

Dedicato a un libro geniale, rassicurante, intelligente e anche un po' commovente, che ha fatto germogliare in me il seme da cui è fiorita la lettrice di oggi... inestirpabile e inarrestabile come un'erbaccia! Un'erbaccia felice, con tanti piccoli mondi conservati l'uno accanto all'altro (e forse l'uno "nell'" altro) nel cuore, nella mente e nella libreria.








"La donna del monte ha detto no"
 

E' inverno, ha nevicato, anche il Natale è passato...non ci sono più ragioni per starsene tappati in casa, di fronte a un piatto fumante di spezzatino di cervo con polenta... Ma proprio quando si raggiunge quello stato di letargia che ci indurrebbe a non più muovere un alluce da sotto il plaid (che ormai è diventato una protesi del divano) e a ringraziare quotidianamento il Signore per il fatto di non possedere un cane da dover accompagnare sottocasa alle 6.30 del mattino per fargli/ci congelare il posteriore...Track!!!!!!!!!!Arriva la tragica presa di coscienza: 
"Bisogna" andare a sciare!

"Allo skilift c'era la coda [...] e, a ogni passo avanti che la coda faceva -una lunga coda che invece d'andar dritta, come pure avrebbe potuto, seguiva una casuale linea a zig-zag, un po' in salita un po' in discesa- pesticciando in su oppure scivolando giù di fianco a seconda del punto in cui si trovavano, e subito puntellandosi ai bastoncini, spesso andando a gravare del proprio peso i vicini di sotto, o cercando di liberare racchette di bastoncini da sotto a sci dei vicini di sopra, inciampando negli sci andati a mettersi per storto, chinandosi ad aggiustare gli attacchi e arrestando così tutta la fila, togliendosi le giacche a vento o i maglioni o rimettendoseli a seconda se il sole appariva o spariva, ricacciando le filze di capelli sotto il copriorecchi di lana o gli sbuffi della camicie a scacchi dentro le cinture, cercando i fazzoletti nelle tasche e soffiandosi i nasi rossi e gelati, e per tutte queste operazioni togliendosi e rimettendosi i guantoni che talvolta cadevano nella neve e bisognava con la punta dei bastoncini ripescarli: quest'agitazione di piccoli gesti scomposti percorreva la fila e diventava frenetica al suo culmine, là dove bisognava aprire le cerniere-lampo di tutte le tasche per cercare dove s'erano cacciati i soldi per il biglietto oppure il tesserino e porgerlo all'uomo dello skilift che ci faceva i buchi, e poi rimettersi la roba nelle tasche, e i guantoni, e unire i due bastoncini unocon la punta infilata nella racchetta dell'altro per tenerli con una mano sola, tutto questo superando la piccola salita della piazzola dove bisognava essere pronti a mettersi a posto l'àncora dello skilift sotto il sedere e a lasciarsi trascinare su di strappo."
("L'avventura di uno sciatore", in "Gli amori difficili")
Così Calvino descrive l'esperienza sciistica. Un incubo. 
Freddo e conseguenti disagi di ogni tipo: abbigliamento da omino Michelin che implica l'impossibilità pressochè totale di fare pipì per l'intero arco della giornata, caschetto antiestetico al 200%, rischio costante di finire spiattellata contro un pino o di rompersi l'osso del collo venendo investiti da quelche sconsiderato gnomo sfrecciante sui ghiacci, dotato di microsci da parte di genitori speranzosi di liberarsene prima del raggiungimento dell'età della ragione e del senso del pericolo...
Aggiungerei: alla modica cifra di 38 € al giorno!!!
Alternativa: ciaspole e pelli di foca per lunghissime faticosissime passeggiate alla volta di stupendi panorami, che una volta raggiunti (a patto di arrivarci), in stato di totale sconvolgimento, non si avrebbe la forza di ammirare... 
A parte il fatto che l'idea di mettermi addosso qualcosa che evochi anche lontanamente la foca (animale simpaticissimo da piccolo, ma che da adulto ricorda piuttosto un sacco unto e pesante, munito di pinne e troppo largo per il suo contenuto...) mi fa ribrezzo, non capisco perchè mio marito scalpiti tanto all'idea di trasportarmi qua e là in alpeggio come una capra o una mucca da transumanza! Non sono Heidi e lo "stracchino" (che si produce notoriamente con il latte delle mucche "stracche") lo posso comodamente acquistare nel supermarket sotto casa, senza doverlo produrre io stessa! Mah! ci sono cose che non capirò mai...!


 E pace sulle piste agli uomini (e alle donne) di buona volontà!








Nessun commento:

Posta un commento

Per lasciare un commento seleziona la voce "utente Google" dal menù a discesa.