giovedì 5 settembre 2013

Natural tatoo

Settembre. Inoltrato.
Ormai l'estate ruzzola verso l'autunno... e pare che nulla possa fermare questa frana del tempo.
L'aria diviene ogni giorno meno pigra, più fresca e frizzante.
Eppure c'è ancora qualche fortunato che si rilassa, spiattellato sotto un sole meno famelico...e scopre gli ultimi lembi (più o meno cotti) di pelle.

Sorge spontanea un'ultima riflessione sulla "superficie corporea"... sull'epidermide a lungo esposta agli UVA, come le strisce di daino dopo averci asciugato la carrozzeria dell'auto... 
Infiniti stuoli di schiene, pance, gambe, spalle, seni e sederi più o meno pudicamente esibiti in spiaggia, ma anche in città, sono state sotto gli occhi di tutti...

Ma oltre a fare tanta scorta di raggi ultravioletti, a cosa ci "serve" la pelle? Che uso ne facciamo? Come la valorizziamo rendendola non un semplice involucro cadutoci addosso ma un elegante abito cucito "su misura"? Possiamo scriverci e dipingerci, trasformandola in tela o in un moderno (e vivo) foglio di pergamena...(mi duole ammetterlo, ma siamo sempre "animali"...chi più chi meno...!!!)

E allora vale la pena di meditare un attimo sui segni, artificiali o "naturali", permanenti o temporanei, che ci portiamo "scritti" addosso: dal make up ai tatuaggi, dalle cicatrici agli abiti stessi.





Non siamo una generazione particolarmente originale, perchè la pratica di pitturarsi, marchiarsi, mascherarsi, addirittura "deformarsi" è appartenuta a tutte le culture, comprese quelle preistoriche. E a pensarci un momento si ammetterà che lo fanno anche gli animali, dal fiero pavone al goffo pesce palla. Esibizione di vanità o finzione di forza, bisogno di nascondersi o desiderio di mostrarsi, celebrare i doni di Madre Natura o porre rimedio alle sue mancanze...


"Dire", con un linguaggio "altro", sussurrato, balbettato o urlato attraverso la membrana che ci protegge e ci mette in contatto col "fuori"; atto istintivo o creativo che ha sempre una sua nobiltà... o quasi.



Dunque Tatuaggi.

Partendo dal presupposto che farmi marchiare come una mucca non è mai stato tra le mie priorità esistenziali, e che i tatuaggi permanenti mi sono sempre sembrati un insulto alla memoria dei detenuti di Auschwitz, ammetto che il fenomeno mi affascina: testimonia una volontà di durevolezza indelebile, suggerisce un bisogno di "permanenza", in un'epoca in cui tutto diventa più effimero e transitorio, "di moda"... una volontà di memoria che evidentemente non può più affidarsi al tradizionale Caro diario...
O forse un'esigenza di diversità, unicità epidermica, data da segni che solo per noi acquistano un significato.
Il nome del primo criceto, la ricorrenza del (primo?) matrimonio o la nascita del primo figlio, il ricordo di una grande gioia o di un momento di passaggio, di cambiamento interiore proiettato all'esterno.
E' tenero e nobile voler serbare perpetuo memento delle esperienze più importanti della propria vita; è triste doverlo fare "cucendosi" addosso date, simboli, motti... Tatuiamo noi stessi, il nostro IO "di fuori", quello che mostriamo al mondo, con i colori del nostro vissuto intimo, personale, che vogliamo proteggere dall'oblio ma non dall'estraneità di quanto ci circonda.
Per ovviare al problema della troppa "visibilità" c'è chi ricorre alle collocazioni più impensabili e inaccessibili. Ma personalmente sapere il mio nome stampigliato a caratteri tribali sulla natica di qualcuno non mi farebbe gran che sentire lusingata...  Nè mi entusiasmerebbe l'idea di contorcermi nelle posizioni più assurde del kamasutra per ripescare quello che mi sono fatta scrivere in posizione scomodissima.
Ecco, al limite ammetto la praticità di farmi eventualmente stampare sul dorso della mano quei tre o quattro numeri utili che non c'è verso riesca a ricordare: pin del bancomat, codice di avviamento postale, numero della carta di identità...  Ma finora sono riuscita ad arrangiarmi anche senza ricorrere a provvedimenti tanto radicali.

Ognuno col proprio tessuto epiteliale ha il diritto di farci quel che vuole, e visto che non pretendo di entrare nella pelle degli altri, non mi permetto di giudicare, anche se per me che svengo solo all'idea di un prelievo di sangue, la prospettiva di soffrire per ore facendosi volontariamente piantare degli aghi sotto la pelle ha poco di ragionevole.
Mi limito a un consiglio spiccio ma profetico: prevedere l'effetto "prugna secca" dell'epidermide "attempata" e di conseguenza essere accurati nella scelta dei soggetti; considerare che col passare degli anni le farfalle sono destinate a trasformarsi in falene con le ali mosce, gli alberi dai rami svettanti e vigili intristirsi in salici, i soli e gli altri simboli tondeggianti a sciogliersi in grottesche rivisitazioni degli orologi di Dalì... Forse reggono giusto le fisarmoniche...cambiando estensione....
E allora oltre che nella scelta dei "contenuti", bisogna dimostrare buon senso (e amor proprio) anche nella scelta della collocazione anatomica del tatuaggio.
Certo, può apparire molto romantico stamparsi fiduciosamente il nome della fidanzata in caratteri svolazzanti sul deltoide, magari dentro un bel cuore purpureo... ma se la prospettiva è quella di ritrovarsi sull'avambraccio una pera cotta con dentro lettere illeggibili perchè simili alle orecchie di un cocker, forse vale la pena di pensarci un attimo.
 
In ogni caso, per quanto facciamo di tutto (soprattutto noi donne) per ricondurla a obbedienza, la nostra pelle vive una vita propria: disegna giorno dopo giorno l'atlante delle nostre esperienze, registra le nostre cicatrici interiori, traccia i confini delle nostre felicità e dei nostri drammi. E non bastano questi segni a renderci unici?
L'attrice Anna Magnani diceva al suo truccatore "Le rughe non coprirle che ci ho messo una vita a farmele venire"... Rara saggezza.
Invece no. Contro questi segni inevitabili e naturali ci siamo inventati mille mascheramenti, correttori, tonici, creme al collagene e acido iarulonico... Quanta fatica per apparire tabulae rasae, tele intonse.



Vintage, vini d'annata, arte retrò, arredamento d'antiquariato, dimore d'epoca. Tutto ciò che ha un vissuto ci affascina, e anche in una borsa di cuoio raggrinzita riusciamo a leggere la paziente opera del tempo, ma facciamo i tutto per non esserne toccati, per restare spettatori a "distanza di sicurezza".
Forse la giovinezza mi concede la presuntuosa convinzione che non vi sia niente di male nel "conquistarsi" qualche difetto, purchè portato con eleganza come un accessorio discreto. Ma probabilmente dovrei rimandare ulteriori riflessioni alla comparsa delle prime "zampe di gallina", e vedere l'effetto che fa.
Però so di non voler assomigliare a uno di quei quadri di pittura astratta contemporanea, con un puntino nero su sfondo bianco o un taglio verticale su un orizzonte di nulla...che non si sa mai bene cosa significhino, nè si capisce se ci piacciono o meno. Non voglio assomigliare a una lavagna segni che non significhino niente, indelebili tracce di esperienze non vissute. Perchè vivere e invecchiare non è forse questo? accumulare esperienza e saggezza e, inevitabilmente, far scorrere attraverso di noi il tempo, con tutti i tagli, i solchi e gli splendidi arabeschi che ne derivano.

85544?f=a:7359>





2 commenti:

  1. La solita, ormai proverbiale, arguzia e intelligenza..........brava come sempre

    RispondiElimina
  2. Soltanto il tempo...

    Soltanto il tempo veramente scrive
    usando come penna il nostro corpo.
    Per le strade, nei cinema o in un letto
    questa calligrafia va persa
    ed è atroce l’incuria
    degli dei e degli uomini.
    Quello che arriva sulla carta è solo
    il commento residuo d’un poema
    perennemente disperso.
    Chiosa frugale, calcolo d’un racconto,
    questo è l’indice ultimo degli indici.

    Valerio Magrelli

    RispondiElimina

Per lasciare un commento seleziona la voce "utente Google" dal menù a discesa.