sabato 31 maggio 2014

Luoghi ignoti.

Si tratti di una villa nella campagna del Chianti, di un appartamento nel cuore di Manhattan, di Parigi  o della località turistica su un'anonima costa degli USA, nei racconti di Un luogo dove non sono mai stato David Leavitt descrive ambienti e paesaggi in tutta la loro sfavillante apparenza, ma posandovi sopra una patina di discreto, elegante squallore, percepibile nonostante la sensualità "lussureggiante" di alcune situazioni: 
Con quanta forza desiderava immergersi per sempre in quell'odore di arrosto, in quel calore di mogano e tappeti, e rumore di voce lungo il corridoio! (p. 142);

Un paesaggio di colline che degraano su asciutte valli color creta; vedute di città brunite dal sole; e sempre quegli strani, meravigliosi alberi italiani; i misteriosi, nobili cipressi, in fila lungo i vuoti viali, come sentinelle; i pini marittimi, con le loro verdi nuvole di foglie; gli olivi allineati nella perfetta geometria dei frutteti (p. 155).



Sempre le atmosfere si trasformano in lucidi, lisci specchi, che riflettono rapporti altrettanto superficiali, "galleggianti", sospesi su un'umanità anonima popolata di inquietudini, verità non confessate, rapporti ambigui, scelte incompiute.
Celia vive il suo amore insensato per l'amico omosessuale e poi segue il fidanzato Seth in Italia, nella speranza di una "Terra promessa" che in realtà non sarà altro che una nuova splendente, pittoresca prigione: "Non devi più sentirti intrappolata [...] Io ti ho salvato dalla sensazione di intappolamento. Io ti ho sottratto al tuo terribile appartamento e al tuo terribile lavoro. Guarda dove siamo adesso e sii felice" (p. 163) Celia capiva che non era così: il giorno in cui avrebbe camminato di nuovo in quelle stanze, lo avrebbe fatto come un fantasma, un'ospite, un'estranea [...] (p. 169).
Nathan, temendo di aver contratto l'AIDS dal suo ex amante, preferisce l'esilio della "privazione", piuttosto che affrontare il terrore del sesso e della morte, e si sottrae continuamente alla vita, alla verità, alla pienezza, conducendo un'esistenza dimezzata e indifferente.
Ellen rincontra la sua ex amante Diana nel giorno del matrimonio di quest'ultima con un uomo: una delle "facili soluzioni", un "atto di compromesso" dal quale sarebbe fiorita una vita "normale", una vita di "facili errori", preferita a una "più difficile, ma migliore" (p. 47).
Il protagonista di ATREP, acronimo di "a tuo rischio e pericolo", sembra vivere di riflesso attraverso le esperienze che l'amico (segretamente amato) Craig non ha timore di compiere, con incoscienza e sprezzante indifferenza, tanto che anche una violenza sessuale subita viene trattata come un qualsiasi banale argomento di conversazione:
"Sono stato violentato a Madrid" [...] Non c'erano lacrime nei suoi occhi, sul suo viso non era visibile nessun cambiamento. Un profondo orrire si impadronì di me [...] Sino a che punto, nel mio vivere attraverso di lui, lo avevo trasformato nella persona che io segretamente, con paura, desideravo ardentemente di essere? [...] l'avevo spinto avanti, pensandomi al sicuro nella sua ombra. (pp. 68-73).
Andrew ama contemporaneamente Jack e Allen, Paul tradisce la moglie Susan con Ted, Sylvia vede suo figlio Theo che sta "di nuovo morendo" (p. 77) ed escogita "un suo modo elaborato di mostarsi ottimista" (p. 78), e per "assicurarsi che fosse ancora lì, vivo, che [...] non fosse ancora sfuggito alle sue cure" (pp. 81-82). Ma tutti vivono un costante inappagamento, un senso di mancanza o attesa, un timore atavico, "immotivato". Sono sempre "fuori posto", "estranei" e nomadi; esuli nelle loro stesse vite. E allora non serve a nulla avere in tasca le chiavi di cinquana immobili: nessun luogo è "casa" se non quelli sognati, perduti o impossibili:
"Stai pensando che questo è il posto più bello del mondo. Così bello che ti rende triste. Ti spezza il cuore, perchè non potrai mai averlo."
"Non è che voglia vivere qui adesso, è che vorrei aver vissuto qui. Essere cresciuta qui. O piuttosto, essere il tipo di persona che cresce in un posto come questo [...]" (p. 163).
Questi "viaggiatori immobli" assistono ai percorsi e alle scelte degli altri, ai loro matrimoni, alle loro liti, alle loro manifestazioni di vittimismo o insensibilità: sono invitati a matrimoni, ospiti di pranzi di famiglie che non sono la loro, accompagnatori a riunioni di malati... E in tutto questo la loro vita sembra bloccata in uno stato di "pausa inquieta". Lo "strappo", il cambiamento è sempre eluso, il movimento mancato.
Una nebbia grigia aleggia sulle parole, e il lettore percepisce con un senso di "freddo" tutto ciò che rimane implicito, al di là del velo di Maya, e impedisce a ogni racconto di raggiungere una vera e propria conclusione. 
Un luogo dove non sono mai stato mette in scena frammenti della "non-vita" dei personaggi, come tappe di un itinerario tracciato attraverso i luoghi dell'anima che ad essi restano preclusi o nei quali non ardiscono di avventurarsi. Luoghi inaccessibili, impossibili, o forse inesistenti che oltrepassano i confini della pochezza della vita di tutti.

martedì 27 maggio 2014

Sottratta all'ombra ...



la Fama, fulminea tra tutti i mali; possiede
vigore di movimento, e acquista forze con l'andare;
dapprima piccola e timorosa; poi si solleva nell'aria,
e avanza sul suolo, e cela il capo tra le nubi 
[...] eloce di passi e d'infaticabili ali,
mostro orrendo, immane [...]
[...] tanti vigili occhi ha [...]
tante lingue, e altrettante bocche risuonano e orecchi protende.
Di notte vola tra il cielo e la terra nell'ombra,
stridendo, e non chiude gli occhi al dolce sonno;
di giorno siede spiando [...]
tenace messaggera tanto del falso e malvagio, quanto del vero.
(Virgilio, Eneide, libro IV, vv. 174- 188)





 
Come si può diventare schiavi del proprio talento? vittime dell'arte e del proprio successo?
Quanto è sottile il confine tra il piacere della scrittura e l'incubo della fama?
E come ci si può sottrarre all'assurda minaccia di una notorietà non desiderata ma imposta dall'esterno, come un habitus scomodo e detestato?  

Protagonista del romanzo è "lei", Silvia Roncella, giovane tarantina trasferitasi a Roma; donna e scrittrice, prima che moglie e madre. Eppure il titolo ci avverte di un protagonismo defrauato: è lei l'artista della parola, la mente creatrice, il personaggio "nobile" del romanzo; eppure è "suo marito" che occupa la scena e muove i fili della sua arte, mentre lei, marionetta impotente, si ritrova a mimare il suo ruolo nel teatrino del mercato delle parole.
Attorno le si muovono innumerevoli personaggi, nelle loro maschere tristi: Attilio Raceni, direttore della "rassegna femminile (non femminista) 'Le Muse'" (p. 21), Dora Barmis "prima musa" (p. 22),  donna Francesca Lampugnani, Donna Maria Rosa Bornè-Laturzi, "onesta gallina faraona [...] decorativa" (p. 29), Filiberto Litti, Bardozzi, Centanni, Federici, eccetera. Una lista di nomi senza volto e senza spessore, che restano sospesi in aria, agganciati a qualche generico epiteto.
Poche le eccezioni, tra cui Maurizio Gueli, "l'illustre scrittore, il Maestro, che da circa dieci anni né sollecitazioni d'amici né ricche profferte di editori riuscivano a smuovere dal silenzio in cui s'era chiuso" (p. 38), scrittore alienato, artista sacrificato e uomo tenuto in "schiavitù" dal dispotismo muliebre di Livia Frezzi..."colei che gli aveva ispirato una abominazione profonda e invincibile d'ogni altro abbraccio e lo teneva in tale stato di schiva timidità ombrosa, da non poter più non che aver contatto, ma neppur pensare al contatto d'altra donna" (p. 167).
Riuniti in quella che si pretende una "fraterna agape letteraria" (p. 22), queste comparse partecipano a una grottesca rivisitazione del banchetto cumano descritto da Petronio: un "moderno simposio", "con le invidie segrete che fiorivano sulle labbra di questo e di quello in dalsi sorrisi e in complimenti avvelenati; con le gelosie mal nascoste, che tiravan qua e là due a maldicenze sommesse; con le ambizioni insoddisfatte e le illusioni fatue e le aspirazioni che non trovavan modo di manifestarsi; teneva schiave tutte quelle anime irrequiete per lo sforzo che a ciascuna costava la simulazione e la difesa. [...] friggevano quelle anime nelle loro chiacchiere, tra cui la malizia di tratto in tratto drizzava le corna" (p. 42).
E' in questo mondo che la giovane Silvia viene gettata, prima dal padre e poi dal marito; lei che scriveva per un "vizio" segreto, una necessità interiore e intima, avvertita quasi con vergogna, come una colpa, si vede improvvisamente costretta a fare commercio del suo talento, strappata al silenzio della pagina e costretta alla fama, ad un successo che vissuto come una violenza:

Avrebbe voluto rimanere laggiù presso al suo mare, nella casa ov'era nata e cresciuta, dove si vedeva ancora, ma con l'impressione strana che fosse un'altra, quella là, sì, un'altra se stessa c'ella stentava a riconoscere. [...] E quella là scriveva? aveva potuto scrivere tante cose? come? perchè? chi gliel'aveva insegnate? donde le erano potute venire in mente? [...] veniva a lei di scrivere spontaneamente, così, all'improvviso. Forse non si dovevano scrivere tali cose? Era un errore scriverle a quel modo? Ella, o piuttosto, quella là non lo sapeva. Non avrebbe mai pensato a stamparle, se il padre non gliele avesse scoperte e strappate dalle mani. Ne aveva avuto vergogna, la prima volta, una gran paura di sembrare strana, quando non era tale, per nulla. [...]
Più che soddisfazione, nel vedere accolto favorevolmente e lodato con molto calore il suo primo libro, ella aveva provato una gran confusione, un'ambascia, una costernazione smaniosa. Avrebbe saputo più scrivere, ora, come prima? non più per sé soltanto? Il pensiero della lode le si affacciava, e la turbava;  si poneva tra lei e le cose che voleva descrivere o rappresentare. [...] Era cominciato il combattimento interno, da allora. (pp. 60-61).
 
La scrittura di Silvia, motivata dal bisogno di proiettare in mondi "altri", popolati da personaggi diversi da sè, aspetti inconfessabili del reale e della propria indole, viene sottratta all'ombra dell'anonimato, e trasformata da fonte di catarsi in costrizione claustrofobica:
Ella non si conosceva ancora, e non voleva conoscersi. Avrebbe dovuto parlare, mostrarsi... e che dire? [...] Quel che di volutamente angusto, di primitivo e di casalingo era in lei s'era ribellato [...] Quanto aveva sofferto durante quel banchetto, esposta lì, come a una fiera! (p. 61).
Ella vedeva bene che il marito non la comprendeva, o meglio, non comprendeva di lei quella parte ch'ella stessa, per non parir singolare dalle altre, voleva tener nascosta in sé e infrenata, che ella stessa non voleva nè indagare nè penetrare fino in fondo. Se un giorno questa parte avesse preso in lei il sopravvento, dove la avrebbe trascinata? Dapprima, quando Giustino, pur senza comprendere, s'era messo a spingerla, a forzarla al lavoro, allettato dagli insperati guadagni, ella sì, aveva provato un vivo compiacimento [...] Avrebbe voluto, però, che egli si fosse arrestato lì [...] (p. 61).
ora egli s'era messo a far bottega di quel segreto [...] s'era messo a vendere e a gridare con tanto baccano la merce, perchè tutti entrassero nel vivo segreto di lei e vedessero e toccassero (p. 146).
Non aveva mai lavorato così, volendo e costruendo la sua opera. L'opera, appena intuita, s'era sempre voluta invece lei stessa, prepotentemente, senza che ella provocasse nel suo spirito alcun movimento atto a effettuarla. Ogni opera in lei s'era sempre modda da sé, perchè da sé soltanto s'era voluta; ed ella non aveva mai fatto altro che obbedire docile e con amor seguace a questa volontà di vita, a ogni suo spontaneo movimento interiore (p. 156).

Si sentiva arida e vuota, e in quell'aridità e in quel vuoto smaniava. (p. 156)
Il successo si stringe attorno alla protagonista, intrappolandola in un ruolo che appare sempre più irreversibile: la recita della "celebrità" sembra privarla di qualsiasi altra identità, depotenziare ogni ruolo, sottrarla alla vita:

Soltanto per creare ella era nata, e non già per produrre materialmente stupide cose, né per impacciarsi e perdersi tra esse (p. 118); "A un solo patto avrebbe potuto seguitare a convivere col marito, cioè a patto di rinunziare all'arte"; "chiudersi tutta nell'ufficio della maternità", "Ma poteva più ora? [...] né esser madre né lavorare poteva più" (p. 159).

Colpevole di questa perdita di libertà, identità, slancio di vita e creatività è lui, "suo marito", improvvisatosi agente o manager, operoso giullare, ridicolmente ostinato nel suo intento di portare a gloria internazionale il nome della moglie, e di trarre il massimo profitto dalla sua arte, che solo per merito suo (piuttosto che per intrinseco pregio) poteva ottenere un qualche riconoscimento.
Determinato in tale scopo e convinto della nobiltà del suo "sacrificio", Giustino si fa strada, con sgraziata invadenza, nel mondo letterario e soprattutto nell'intimità creativa della moglie.   
"Ma dunque è vero, proprio vero, questo trionfo?" E pareva avesse paura di crederlo vero, o fosse all'improvviso assaltata dal dubbio che ci fosse sotto sotto qualcosa di combinato, tutta una macchinazione ordita dal marito che si dava tanto da fare, una gonfiatura, ecco, per cui ella dovesse provare, più che sdegno, onta, come per una irriverenza indecente alla sua maternità [...] e uno strappo, una violenza alle sue modeste, raccolte abitudini (p. 102).
Silvia assiste impotente allo spettacolo clownesco del marito, che espone se stesso e lei all'umiliazione della beffa e della pubblica derisione, della mortifiazione che assume progressivamente i tratti di un incubo allucinato:
Fin nel fruscìo degli abiti, nel lieve sgrigliolìo delle scarpe attutio dalla spessezza dei tappeti, in ogni rumore, fosse d'una seggiola smossa, d'un uscio aperto, d'un cucchiaino agitato nella tazza; e poi nel frastuono del pianoforte [...] sorrisetti, risatine, sghigni, scrosci di risa fragorose, sbardellate, squacquerate, parve a Silvia d'avvertire, e le sembrò dileggio ogni sorriso di deferenza o di compiacimento per lei; il dileggio credette di scorgere in ogni sguardo, in ogni gesto, in ogni parola dei tanti convitati. (p. 141)
Come avrebbe fatto ella a resistere a quel supplizio [...]? (p. 139).
Se Silvia può forse pensare di sottomettersi alla violenza, in nome di una gratitudine non provata ma "dovuta" a Giustino, non può farsi complice della loro comune umiliazione e allora lo scuote, lo mette di fronte all'assurdità del suo comportamento, all'ipocrisia che si cela dietro i sorrisi che riceve e le mani che stringe, credendo di dargli uno scrollo poderoso, per salvarlo e salvarsi, facendo cadere anche a lui la benda dagli occhi (p. 140). Sarà un'amara epifania la scoperta che il marito è consapevole delle beffe di cui si è reso e l'ha resa oggetto, e vi si sottopone di buon grado se esse rappresentano il prezzo da pagare per ottenere qualche vantaggio più grande:
dunque, egli sapeva? se n'era già accorto? e aveva seguitato, senza curarsene, e voleva ancora seguitare? non gl'importava affatto che tutti ridessero di lui e di lei? [...] voleva dir forse che per lui era tutta una cosa da ridere la letteratura, una cosa di cui un uomo di sano criterio, sagace e accorto, non avrebbe potuto impacciarsi se non così, cioè a patto di trar profitto dalle risa degli sciocchi che la prendevano sul serio? (pp. 140-141)
E' a questo punto che scatta la ribellione, meditata nella freddezza estranea della "nuova casa", con la complicità spirituale di Maurizio Gueli, unica figura con cui la protagonista condivide il sentimento di estraneità alla dimensione in cui sono prigionieri, l'intimo senso di una profonda scissione, il "non riconoscersi più" e al tempo stesso lo scoprirsi consapevoli di un'ineliminabile duplicità: il "vedersi vivere", l'esistere in due esseri diversi: uno per sè, uno per gli altri;
Era in entrambi, la stessa cosicenza, che un minimo atto, una minima concessione, un minimo abbandono, avrebbe determinato un rivolgimento assoluto e intero della loro esistenza (p. 175).
Ma mentre il personaggio maschile si rivela debole, perchè troppo abituato alla rinuncia totale a se stesso, alla propria natura spontanea ("egli reprimeva in sé ogni moto, soffogava anche i più innocenti desuderi, si vietava tutto, fin anche di sorridere a una visione d'arte che gli passase e la mente, e di parlare e di guardare [...] così violentato, così escluso da ogn'altra vita", p. 171), e preferisce abbandonarsi alla sua "schiavitù", alla "non vita" come a un rifugio, Silvia Roncella sceglie di vivere per sé, a costo di sacrificare il marito (e il figlio?). Sceglie di abbandonare non l'arte ma la casa non amata, il marito non stimato, la vita non voluta... Non rinuncia neppure alla fama cui è ormai stata iniziata. Ma ormai la vive come conseguenza naturale del proprio talento, non come frutto di un commercio ipocrita di di convenienze. E mentre Silvia rinasce a una nuova esistenza e a una rinnovata identità, il romanzo si concluderà con due morti, una letterale (quella del figlioletto di Silvia) e una "letteraria" o meglio "editoriale": Giustino nel suo ruolo di "agente", in qualche modo di "editore" della fama della moglie, dovrà arrendersi alla "fuga dello scrittore", all'affermazione di autonomia di Silvia, come donna e come artista:
Straziato da questo esilio, ch'era d'un passo e infinito, dalla sua stessa vita, la quale, ecco, viveva là, fuori di lui, innanzi a lui, e lo lasciava spettatore inerte della sua propria miseria, della sua nullità adesso (p. 204);

Era uno lì della folla, confuso con tutti... eh no, no, neppur questo: neanche de la folla egli poteva più far parte: egli non doveva esserci, ecco; e non c'era, di fatti: chiuso, nascosto lì in un palchetto che tutti dovevano creder vuoto, l'unico vuoto, perchè c'era uno che non doveva esserci... (p. 207);

La morte per lui non era tanto in quella piccola bara, quanto [...] nella definitiva partenza di lei. Quel ch'era morto di lui nel suo bimbo era ben poco a confronto di quel che di lui moriva con l'allontanamento della moglie. [...] doveva deporre [...] nelle mani della moglie gli ultimi resti della sua vita (p. 221).
E' la rivincita della letteratura sulle leggi del mercato, dello scrittore sull'opera, del genio sulla regola, ma anche l'affermazione di una frattura che interviene a separare l'arte dalla vita, lo scrittore dalla banalità quotidiana...

Pirandello muove una critica niente affatto velata al mondo letterario e alla tirannia dei meccanismi dell'industria editoriale, di cui Giustino Boggiolo diviene la grottesca incarnazione: un mondo in cui la professione del letterato si riduce in una "continua offerta di sé, in un continuo commercio di vanità, in un accatto di fatue soddisfazioni, in un perpetuo struggimento di piacere altrui e d'averne lodi" (p. 169); "un continuo giuoco di finzioni [...] Fingere, fingere sempre, dare apparenza di realtà a tutte le cose non vere" (p. 170).
Attraverso la metafora del sopruso familiare, vera e propria "violenza domestica" da parte di un marito disposto a fare "mercato, anche a costo della dignità di lei" (p. 145), l'autore denuncia la subordinazione dell'arte alle ragioni del mercato e l'asservimento dello scrittore alla logica imprenditoriale di un'editoria la cui autorità è in realtà una chimera: esiste solo in virtù di quel genio che sottomette e umilia, di quegli scrittori che imbriglia nelle sue maglie e priva di libertà di moviemento... Senza tale vassallaggio "poetico", senza il nutrimento dell'arte, l'editoria soccombe; solo allora lo scrittore  può ritrovare l'appagamento dell'attività creativa, lo slancio necessario a "lasciar la fatuità dei miseri casi dell'esistenza quotidiana, la fatuità degli uomini che, senz'accorgersene, vàgolano immersi nel vortice immenso della vita" (p. 220), per proiettarsi in una vita "altra"...non necessariamente meno "vera".



lunedì 12 maggio 2014

L'isola di Arturo

Elsa Morante
(introduzione di Cesare Garboli)
Torino, Einaudi
pp. 398


Un'isola è un luogo magico, una parentesi si terra sospesa nel tempo e tra le acque, una dimensione di “alterità” in cui l’esistenza può determinarsi e svolgersi secondo ritmi propri e gesti che assumono quasi il significato di rituali collettivi:

«I Procidani sono scontrosi, taciturni. Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano   piace. E l’arrivo di un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza. Se esso fa delle domande, gli rispondono di malavoglia; perché la gente, nella mia isola, non ama d’essere spiata nella propria segretezza» (p. 14).

L’ambiente che fa da scenario alla storia narrata è (almeno nel nome) Procida, “la mia isola” come la definisce più volte il protagonista, Arturo, per il quale essa coincide con l’Ecumene: le sue coste ritagliano i confini dell’esistenza vivibile, al di là dei quali si estende l’infinità di un mondo “pensabile” ma irraggiungibile. L’isola, con la sua “casa dei Guaglioni” (una dimora che coniuga i tratti del castello fiabesco, del luogo stregato e di un monumento al timore misogino), rappresenta per lui un rifugio, un ampliamento dell'alveo materno, una nicchia nella Storia, che custodisce gelosamente una porzione di vita e natura sottratte alla terraferma e al mondo, e nella quale egli si protegge dai venti che sferzano il resto del mondo e dell’umanità. Arturo è l’isola, al tempo stesso unico specchio nel quale assume un’apparente definizione la figura paterna e conchiglia in cui risuona l’eco di una presenza materna perduta e mai conosciuta («Figurina stinta, mediocre quasi larvale; ma  adorazione fantastica di tutta la mia fanciullezza», p. 11; «la mia regina orientale, la mia sirena», p. 73).

Simbolo dell’inesperienza sognante, dell’infanzia creativa e affascinata, dei legami affettivi imprescindibili per quanto inafferrabili, l’isola napoletana perde qualsiasi concretezza oggettiva, qualsiasi identificabilità geografica; smette di essere un luogo per trasformarsi in "spazio"; non è più un "dove" bensì un “altrove”. Tutto si svolge qui, ma nulla di fatto vi accade. E il protagonista, creatura celeste (eponimo di una stella) vive sospeso tra terra e mare, destinato a innalzarsi al di sopra dei confini terreni e marini e di qualsiasi mediocrità umana, dovrà cercare proprio al di là di essi la sua piena identità, la sua vera esistenza.

«Arturo è una stella […] questo nome fu portato pure da un re dell’antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli» (p. 11)

In una sorta di Paradiso non ancora “perduto”, Il protagonista conduce un'esistenza "selvatica", vive la sua fanciullezza immerso in una natura marina che lo culla e con la quale egli sembra fondersi e identificarsi panicamente:

«i miei occhi e i miei pensieri lasciavano il cielo […] riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo riguardavo, palpitava verso di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era grande e fantastico, e possedeva territori che non si potevano contare, diversi uno dall’altro, come centomila pianeti!» (p. 180)

Arturo cresce in profonda solitudine a causa della frequente lontananza del padre, che del suo mondo irreale e inconsistente è la personificazione e il fulcro:

«io credevo di sentire il suo respiro, continuo e rassicurante come quello del mare. Il presente mi pareva un’epoca perenne, come una festa di fate» (p. 126);
«il ricordo di lui invadeva tutta l’isola come una moltitudine insidiosa, affascinante. Lo riconoscevo nel sapore dell’acqua di mare, della frutta; passava lo stridio di un gufo, di un gabbiano, e mi pareva lui che chiamasse: “Ehi, moro!” Il vento autunnale mi buttava addosso degli spruzzi, o delle folate di sabbia; e mi pareva lui che mi provocasse scherzando. […] come un invasore, s’impadroniva a questo modo della mia isola; ma pure sapevo che l’isola non mi sarebbe piaciuta tanto se non fosse stata sua, indivisibile dalla sua persona». (p. 191)


Wilhelm Gerace è ovunque e sempre assente; figura eterea e sfuggente, irraggiungibile nella sua perfezione “superumana”, avvolta da una nebbia imperscrutabile, intorno alla quale Arturo tesse magnifiche fiabe, misteriose leggende, immaginando mitiche origini, avventure epiche e gesta eroiche.

«La mia infanzia è come un paese felice del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza» (p. 28);
 «Per me, che non potevo attribuire, a lui, nessun capriccio umano, il suo broncio era maestoso come l’oscurarsi del giorno, indizio certo di eventi misteriosi, e importanti come la Storia Universale.Le sue ragioni appartenevano soltanto a lui. Ai suoi silenzi, alle sue feste, ai suoi disprezzi, ai suoi martiri, io non cercavo una spiegazione. Erano, per me, come dei sacramenti: grandi e gravi, fuori d’ogni misura terrestre, e d’ogni futilità» (p. 30);

«Nella mia nostalgia, mi facevo di lui, un ritratto romantico, e non troppo rassomigliante […] Mi rappresentavo W. G. come una sorta di grande angelo affettuoso, il solo amico mio sulla terra: colui al quale potrei confessare, forse, tutte le mie ambasce, anche quelle inconfessabili, e che potrebbe capirmi, spiegarmi ciò che non capivo! […] mi attaccavo alla visione angelica di mio padre come all’unico rifugio sperato». (p. 269)

Tutto ciò che lo circonda e lo riguarda assume agli occhi di Arturo una connotazione quasi sacrale, e l’idea del padre diviene per lui termine di un inesauribile paragone, indirizzo ultimo di ogni suo atto di coraggio e di maturità, ma anche la fonte inevitabile di ogni sua umiliazione, del suo senso d'inferiorità, della sua solitudine.
Seguendo con la mente e con il desiderio le peregrinazioni paterne attraverso il mare, verso terre lontane e mete sconosciute, il protagonista trascorre la sua infanzia nell'attesa solitaria e silenziosa di una "dignità" adulta che gli conquisti il rispetto del genitore.

«Aspetta d’essere cresciuto, per partire con me.” Ebbi un pensiero di rivolta contro l’assolutezza della vita, che mi condannava a percorrere una siberia sterminata di giorni e di notti prima di togliermi a questa amarezza: d’essere un ragazzino. Dall’impazienza, in quel momento, mi sarei perfino assoggettato a un lunghissimo letargo, che mi facesse attraversare senza accorgermene le mie età inferiori, per ritrovarmi, d’un tratto, uomo, peri a mio padre. “Pari a mio padre!” Purtroppo, io (pensai, guardandolo), anche quando mi farò uomo, non potrò mai essere pari a lui. Non avrò mai i capelli biondi, né gli occhi viola-celesti, né sarò mai così bello!!» (pp. 44-45)


Nel frattempo Arturo si conforta con le sue letture e le avventure a bordo della Torpediniera delle Antille, con l'amicizia della cagna Immacolatella e col senso di una "presenza" materna che oltrepassa i confini della morte e resta "sospesa" nell'aria, circondata di azzurro. Sua madre, morta nell'atto di dargli la vita, è l'unica creatura per la quale egli sa immaginare un Paradiso altrimenti rifiutato, insieme a qualsiasi idea di Dio o di esistenza ulteriore:

Ad ascoltare la ragione, sapevo che tutto quanto restava di mia madre era rinchiuso sotto terra, nel cimitero di Procida. Ma la ragione, davanti a lei, si ritraeva, e, senza rendermene conto, io, per lei, credevo addirittura in un paradiso.(p. 52)

Così Procida diviene al tempo stesso un nido, un Eden, una prigione e una tomba, ma anche una «grande nave piena di vento oceanico, in rotta su itinerari stupendi» (p. 56), a bordo della quale Arturo veleggia attraverso l'innocenza favolosa dell'infanzia, carica di sogni mitici, aspettativa e anche inesperienza, verso l'infinita potenzialità del futuro, alla volta un'età adulta vagheggiata come epoca di libertà, movimento, acquisizione di una dignità e di una virilità paragonabili a quelle paterne, di una propria “bellezza” e consapevolezza di sé:

«Osservandolo, io mi accorgevo di qualche ruga che aveva sotto gli occhi, in mezzo ai sopraccigli, presso i labbri. Pensavo, con invidia: Sono i segni dell’età. Quando anch’io avrò le rughe, sarà segno che sono diventato grande, e a quell’epoca io e lui porremo stare sempre insieme» (p. 56) ;

«Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le terre, e tutta la vita!» (p. 180)

La conquista dell'"adultità" si realizza per il protagonista attraverso la progressiva apertura verso il sesso femminile, che porta con sé la  scoperta dell'amore: «Adesso, imparavo che tanti poeti dicono il vero, affermando la poca costanza delle donne. E anche sulla bellezza delle donne, essi non mentono» (pp. 240-241).
Ma si tratta ancora di un sentimento immaturo, inconsapevole, oltre che "illecito"; una prima forma di "iniziazione" alla vita che conserva l'aspetto violento, "fiabesco" e totalizzante che caratterizzava il legame col padre, nei confronti del quale rappresenta un primo distacco:
«pur senza guardarla, al modo di un pellegrino bendato, il pensiero ritornava a lei […] d’improvviso, il rumore delle onde, il fischio dei vapori, tutti i suoni dell’isola e del cielo, parevano gridare insieme: “Nunziata! Nunziatella!”» (pp. 264-265);
«il dubbio che le sue parole fossero davvero un ritratto dei suoi sentimenti [...] bastò a precipitarmi in una tristezza agghiacciante, come se m'avessero condannato, d'un tratto, a finire l'esistenza in una notte polare» (p. 293).

L'esplorazione del mondo implica per Arturo la presa di coscienza delle passioni proprie e altrui, l’accettazione dell'umanità di cui sono espressione, dell'imperfezione, debole, terrena, cui anche il padre viene finalmente abbassato.
L’“iniziazione” di Arturo alla vita coinciderà con la caduta delle illusioni mitiche, con l’epilogo delle favole che lui stesso ha tessuto nel corso degli anni per avere una storia in cui collocarsi, un "lieto fine" da aspettare, una partenza eroica cui prepararsi.

«Oggi, provavo compatimento per quella mia antica illusione […] Questo bel paesaggio infantile […] l’atmosfera e l’acqua […] tutte e due così limpide […] Ogni cosa appariva chiara, precisa e isolata in se stessa; ma pure, gli innumerevoli punti delle cose si mischiavano insieme in un colore divino e festante, verde, celeste e oro». (p. 245)

Ma contrariamente a quanto avviene in tante esistenze e in tanta letteratura, questo passaggio non costituisce qui un trapasso violento o doloroso, ma si presenta come un esito positivo e spontaneo, coerente con la naturalità della vita “embrionale” di Arturo. Il protagonista bambino è il "fanciullino" pascolano, che sa guardare il mondo con stupore e purezza intellettuale e sentimentale, prefigurando per sé e per gli altri scenari eccezionali e situazioni iperboliche, con l'aiuto della fantasia letteraria racchiusa nei libri che legge.

«Voglio compiere delle azioni gloriose, da fare imparare il mio nome a tutti quanti! Questa parola: “Arturo Gerace” si deve conoscere per tutti i paesi! […] quando sarò diventato il primo valoroso, proprio come un vero re […] andrò coi miei fedeli a conquistare le popolazioni, e insegnerò a tutta la gente la vera bravura! e l’onore! […] Io  voglio spiegare a tutti quanti la bellezza del valore, che vince la misera viltà!» (p. 116)

L'Arturo che infine abbandona Procida non si identifica più con la sua isola, non è più un’isola, né una stella levata alta e distante, a tratti abbacinata dalla luminosità bionda del padre.
Nel momento in cui si imbarca per Napoli, accompagnato dal balio che lo ha svezzato con latte di capra e che ora torna a condurlo verso una nuova vita, Arturo incarna l’essere umano, non già deluso dall'esistenza (dalla quale peraltro il protagonista si è preservato, protetto nella sua nicchia di mondo), ma curioso e fiducioso, finalmente capace di sottrarsi a una dimensione di "sogno" che rischia di trasformarsi in prigione.

«l’isola, per me, che cosa era stata, finora? un paese d’avventure, un giardino beato! ora, invece, essa mi appariva una magione stregata e voluttuosa, nella quale non trovavo da saziarmi, come lo sciagurato re Mida» (p. 267);
«antica chimera multiforme che m’incantava […] tendeva altre braccia, e aveva diverse preghiere, voci, sospiri; ma non mutava il suo fatato velo: l’ambiguità, che m’imprigionava […] come una ragnatela iridescente» (p. 191);
«Io, da quando sono nato, non ho aspettato che il giorno pieno, la perfezione della vita: ho sempre saputo che l’isola, e quella mia primitiva felicità, non erano altro che una imperfetta notte […] la notte della vita […] e aspetto sempre che il mio giorno arrivi, simile a un fratello meraviglioso con cui ci si racconta, abbracciati, la lunga noia...» (p. 187).

A questo "muoversi" di Arturo, al suo cambiare, allontanandosi dallo spazio e dal tempo della fanciullezza, si contrappone ora in modo evidente la sostanziale immobilità del padre: sempre in viaggio senza mai "essere" in nessun luogo, capace di esistere come mito o fantasma ma non come persona reale... Wilhelm Gerace è un'ingombrante assenza nella vita del figlio e della moglie, «parodia» (p. 316) di se stesso e dell'Uomo, prigioniero delle proprie incapacità e inquietudini, in una sorta di "eterna infanzia" («suoi sospiri, che erano infantili eternamente, come quelli dell'universo!», p. 301), in un'incompletezza e inconsistenza che giustificano l'abitudine di Arturo a indicare questo personaggio con le sole iniziali (W.G.).

L'immagine del carcere di Procida, che ricorre frequentemente nel corso del romanzo, si trasforma in correlativo oggettivo di questo stato interiore, riflesso di una condizione esistenziale che esercita su Arturo (e anche sulla matrigna Nunziata) un fascino distante e misterioso, ma viene evitato e respinto perché in contrasto con la sua forza vitale («in una dimensione inesorabile, fuori dall'umano, quasi un funebre Olimpo. Io ero giunto a escluderlo non solo dai miei itinerari abituali, ma, per quanto era possibile, anche dalla mia vista», p. 304), divenendo nel suo immaginario la dimensione naturale del padre. Come tutto ciò che riguarda la figura di Wilhelm, anche la Cittadella si cinge per Arturo di una sorta di «divieto», «strano e mostruoso», suscitando in lui "una specie di pudore sacro" (p. 302) e risvegliandone la «fede bambinesca e superstiziosa» nei confronti del padre. Anche se ormai questi sembra vivere la prigionia come condizione permanente, tanto che Arturo, immaginando di udire il coro delle voci dei galeotti, mentre naviga vicino alla scogliera su cui sorge il penitenziario, viene sorpreso dal dubbio di poter distinguere tra esse la voce del padre, «irreale come quella d'un feticcio o d'un morto» (p. 304).

Indifferente alla vita, «in una magnificenza funeraria, con la sua faccia bianca e deperita» (p. 304), Wilhelm Gerace si condanna all'esilio della non-identità, dell'affettività inespressa e del desiderio inappagabile, di un'omossessualità non dichiarata neppure a se stesso ma subita come segreto e come sottomissione vassallatica verso qualcuno che è sempre "altro" o sempre “altrove".

Arturo sceglie di crescere e di scoprire dentro di sé questo “altro” e questo “altrove”, per lui fino ad allora incarnati dal padre. Sopraggiunge il distacco, la liberazione si compie e l'addio assume la forma di un'ultima fiaba, in cui «il [...] personaggio principale non è più Wilhelm Gerace» (p. 230), che sfuma nell'orizzonte, insieme al profilo dell'isola («Non mi va di vedere Procida mentre s'allontana [...] Preferisco fingere che non sia esistita», p.379):

«Subitaneo, il ricordo della sua persona mi accorse alla mente, non come una figura precisa, ma come una specie di nube che avanzava carica d'oro, d'azzurro torbido; o come un sapore amaro; o un vocio quasi di folla, ma invece erano gli echi numerosi dei suoi richiami e parole, che ritornavano da ogni punto della mia vita. E certi tratti propri di lui, ma quasi trascurabili [...] ritornavano isolati, a farmi battere il cuore, quasi unici simboli perfetti di una grazia molteplice, misteriosa, senza fine... E di un dolore che mi si faceva più acerbo per questo motivo: perché sentivo che esso era una cosa fanciullesca [..]. lo avrei dimenticato, naturalmente, tradito. Di qui sarei passato a un'altra età, e avrei riguardato a lui come a una favola» (p. 376)

Arturo viene traghettato dalla fiaba alla realtà, verso la pienezza ignota della vita,  finalmente oltre le sue «Colonne d’Ercole», laddove «i beati rumori e iridescenze della realtà sono un teatro incantato che innamora ogni cuore vivente fino all’ultimo» (p. 245).