Elsa Morante
(introduzione di Cesare Garboli)
Torino, Einaudi
pp. 398
Un'isola è un luogo magico, una
parentesi si terra sospesa nel tempo e tra le acque, una dimensione di
“alterità” in cui l’esistenza può determinarsi e svolgersi secondo ritmi propri
e gesti che assumono quasi il significato di rituali collettivi:
«I Procidani sono scontrosi,
taciturni. Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano piace. E l’arrivo di un forestiero non desta curiosità,
ma piuttosto diffidenza. Se esso fa delle domande, gli rispondono di
malavoglia; perché la gente, nella mia isola, non ama d’essere spiata nella
propria segretezza»
(p. 14).
L’ambiente che fa da scenario alla
storia narrata è (almeno nel nome) Procida, “la mia isola” come la definisce
più volte il protagonista, Arturo, per il quale essa coincide con l’Ecumene:
le sue coste ritagliano i confini dell’esistenza vivibile, al di là dei
quali si estende l’infinità di un mondo “pensabile” ma irraggiungibile.
L’isola, con la sua “casa dei Guaglioni” (una dimora che coniuga i tratti del
castello fiabesco, del luogo stregato e di un monumento al timore misogino),
rappresenta per lui un rifugio, un ampliamento dell'alveo materno, una nicchia
nella Storia, che custodisce gelosamente una porzione di vita e natura
sottratte alla terraferma e al mondo, e nella quale egli si protegge dai venti
che sferzano il resto del mondo e dell’umanità. Arturo è l’isola, al tempo
stesso unico specchio nel quale assume un’apparente definizione la figura
paterna e conchiglia in cui risuona l’eco di una presenza materna perduta e mai
conosciuta («Figurina stinta, mediocre quasi larvale; ma adorazione fantastica di tutta la mia
fanciullezza», p. 11; «la mia regina orientale, la mia sirena», p.
73).
Simbolo dell’inesperienza sognante,
dell’infanzia creativa e affascinata, dei legami affettivi imprescindibili per
quanto inafferrabili, l’isola napoletana perde qualsiasi concretezza oggettiva,
qualsiasi identificabilità geografica; smette di essere un luogo per trasformarsi in
"spazio"; non è più un "dove" bensì un “altrove”. Tutto si svolge qui,
ma nulla di fatto vi accade. E il protagonista, creatura celeste (eponimo di
una stella) vive sospeso tra terra e mare, destinato a innalzarsi al di sopra
dei confini terreni e marini e di qualsiasi mediocrità umana, dovrà cercare
proprio al di là di essi la sua piena identità, la sua vera esistenza.
«Arturo è una stella […] questo nome
fu portato pure da un re dell’antichità, comandante a una schiera di fedeli: i
quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla
pari, come fratelli» (p. 11)
In una sorta di Paradiso non ancora
“perduto”, Il protagonista conduce un'esistenza "selvatica", vive la
sua fanciullezza immerso in una natura marina che lo culla e con la quale egli
sembra fondersi e identificarsi panicamente:
«i miei occhi e i miei pensieri
lasciavano il cielo […] riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo
riguardavo, palpitava verso di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno
di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era
grande e fantastico, e possedeva territori che non si potevano contare, diversi
uno dall’altro, come centomila pianeti!» (p. 180)
Arturo cresce in profonda solitudine
a causa della frequente lontananza del padre, che del suo mondo irreale e
inconsistente è la personificazione e il fulcro:
«io credevo di sentire il suo
respiro, continuo e rassicurante come quello del mare. Il presente mi pareva
un’epoca perenne, come una festa di fate» (p. 126);
«il ricordo di lui invadeva tutta
l’isola come una moltitudine insidiosa, affascinante. Lo riconoscevo nel sapore
dell’acqua di mare, della frutta; passava lo stridio di un gufo, di un gabbiano,
e mi pareva lui che chiamasse: “Ehi, moro!” Il vento autunnale mi buttava
addosso degli spruzzi, o delle folate di sabbia; e mi pareva lui che mi
provocasse scherzando. […] come un invasore, s’impadroniva a questo modo della
mia isola; ma pure sapevo che l’isola non mi sarebbe piaciuta tanto se non
fosse stata sua, indivisibile dalla sua persona». (p. 191)
Wilhelm Gerace è ovunque e sempre
assente; figura eterea e sfuggente, irraggiungibile nella sua perfezione
“superumana”, avvolta da una nebbia imperscrutabile, intorno alla quale Arturo
tesse magnifiche fiabe, misteriose leggende, immaginando mitiche origini,
avventure epiche e gesta eroiche.
«La mia infanzia è come un paese
felice del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre
in partenza» (p.
28);
«Per me, che non potevo attribuire, a lui,
nessun capriccio umano, il suo broncio era maestoso come l’oscurarsi del
giorno, indizio certo di eventi misteriosi, e importanti come la Storia
Universale.Le sue ragioni appartenevano soltanto a lui. Ai suoi silenzi, alle
sue feste, ai suoi disprezzi, ai suoi martiri, io non cercavo una spiegazione.
Erano, per me, come dei sacramenti: grandi e gravi, fuori d’ogni misura
terrestre, e d’ogni futilità» (p. 30);
«Nella mia nostalgia, mi facevo di
lui, un ritratto romantico, e non troppo rassomigliante […] Mi rappresentavo W.
G. come una sorta di grande angelo affettuoso, il solo amico mio sulla terra:
colui al quale potrei confessare, forse, tutte le mie ambasce, anche quelle
inconfessabili, e che potrebbe capirmi, spiegarmi ciò che non capivo! […] mi
attaccavo alla visione angelica di mio padre come all’unico rifugio sperato». (p. 269)
Tutto ciò che lo circonda e lo
riguarda assume agli occhi di Arturo una connotazione quasi sacrale, e l’idea
del padre diviene per lui termine di un inesauribile paragone, indirizzo ultimo
di ogni suo atto di coraggio e di maturità, ma anche la fonte inevitabile di ogni sua
umiliazione, del suo senso d'inferiorità, della sua solitudine.
Seguendo con la mente e con il
desiderio le peregrinazioni paterne attraverso il mare, verso terre lontane e
mete sconosciute, il protagonista trascorre la sua infanzia nell'attesa
solitaria e silenziosa di una "dignità" adulta che gli conquisti il
rispetto del genitore.
«Aspetta d’essere cresciuto, per
partire con me.” Ebbi
un pensiero di rivolta contro l’assolutezza della vita, che mi condannava a
percorrere una siberia sterminata di giorni e di notti prima di togliermi a
questa amarezza: d’essere un ragazzino. Dall’impazienza, in quel momento, mi
sarei perfino assoggettato a un lunghissimo letargo, che mi facesse
attraversare senza accorgermene le mie età inferiori, per ritrovarmi, d’un
tratto, uomo, peri a mio padre. “Pari a mio padre!” Purtroppo, io (pensai,
guardandolo), anche quando mi farò uomo, non potrò mai essere pari a lui. Non
avrò mai i capelli biondi, né gli occhi viola-celesti, né sarò mai così bello!!»
(pp. 44-45)
Nel frattempo Arturo si conforta con
le sue letture e le avventure a bordo della Torpediniera delle Antille, con
l'amicizia della cagna Immacolatella e col senso di una "presenza"
materna che oltrepassa i confini della morte e resta "sospesa"
nell'aria, circondata di azzurro. Sua madre, morta nell'atto di dargli la vita,
è l'unica creatura per la quale egli sa immaginare un Paradiso altrimenti
rifiutato, insieme a qualsiasi idea di Dio o di esistenza ulteriore:
Ad ascoltare la ragione, sapevo che
tutto quanto restava di mia madre era rinchiuso sotto terra, nel cimitero di
Procida. Ma la ragione, davanti a lei, si ritraeva, e, senza rendermene conto,
io, per lei, credevo addirittura in un paradiso.(p. 52)
Così Procida diviene al tempo stesso
un nido, un Eden, una prigione e una tomba, ma anche una «grande nave piena
di vento oceanico, in rotta su itinerari stupendi» (p. 56), a bordo della
quale Arturo veleggia attraverso l'innocenza favolosa dell'infanzia, carica di
sogni mitici, aspettativa e anche inesperienza, verso l'infinita potenzialità del futuro, alla volta un'età adulta vagheggiata come epoca di
libertà,
movimento, acquisizione di una dignità e di una virilità paragonabili a quelle paterne, di
una propria “bellezza” e consapevolezza di sé:
«Osservandolo, io mi accorgevo di
qualche ruga che aveva sotto gli occhi, in mezzo ai sopraccigli, presso i
labbri. Pensavo, con invidia: Sono i segni dell’età. Quando anch’io avrò le
rughe, sarà segno che sono diventato grande, e a quell’epoca io e lui porremo
stare sempre insieme» (p. 56) ;
«Presto, ormai, per me,
incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino,
ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre
giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con
lui a conoscere gli oceani, e tutte le terre, e tutta la vita!» (p. 180)
La conquista dell'"adultità" si realizza per il
protagonista attraverso la progressiva apertura verso il sesso femminile, che
porta con sé la scoperta dell'amore: «Adesso,
imparavo che tanti poeti dicono il vero, affermando la poca costanza delle
donne. E anche sulla bellezza delle donne, essi non mentono» (pp. 240-241).
Ma si tratta ancora di un sentimento
immaturo, inconsapevole, oltre che "illecito"; una prima forma di
"iniziazione" alla vita che conserva l'aspetto violento,
"fiabesco" e totalizzante che caratterizzava il legame col padre, nei
confronti del quale rappresenta un primo distacco:
«pur senza guardarla, al modo di
un pellegrino bendato, il pensiero ritornava a lei […] d’improvviso, il rumore
delle onde, il fischio dei vapori, tutti i suoni dell’isola e del cielo,
parevano gridare insieme: “Nunziata! Nunziatella!”» (pp. 264-265);
«il dubbio che le sue parole fossero
davvero un ritratto dei suoi sentimenti [...] bastò a precipitarmi in una
tristezza agghiacciante, come se m'avessero condannato, d'un tratto, a finire l'esistenza
in una notte polare» (p.
293).
L'esplorazione del mondo implica per
Arturo la presa di coscienza delle passioni proprie e altrui, l’accettazione
dell'umanità di cui sono espressione, dell'imperfezione, debole, terrena, cui
anche il padre viene finalmente abbassato.
L’“iniziazione” di Arturo alla vita coinciderà
con la caduta delle
illusioni mitiche, con l’epilogo delle favole che lui stesso ha tessuto nel
corso degli anni per avere una storia in cui collocarsi, un "lieto
fine" da aspettare, una partenza eroica cui prepararsi.
«Oggi, provavo compatimento per
quella mia antica illusione […] Questo bel paesaggio infantile […] l’atmosfera
e l’acqua […] tutte e due così limpide […] Ogni cosa appariva chiara, precisa e
isolata in se stessa; ma pure, gli innumerevoli punti delle cose si mischiavano
insieme in un colore divino e festante, verde, celeste e oro». (p. 245)
Ma contrariamente a quanto avviene
in tante esistenze e in tanta letteratura, questo passaggio non costituisce qui
un trapasso violento o doloroso, ma si presenta come un esito positivo e
spontaneo, coerente con la naturalità della vita “embrionale” di Arturo. Il protagonista bambino è
il "fanciullino" pascolano, che sa guardare il mondo con stupore e
purezza intellettuale e sentimentale, prefigurando per sé e per gli altri
scenari eccezionali e situazioni iperboliche, con l'aiuto della fantasia letteraria
racchiusa nei libri che legge.
«Voglio compiere delle azioni
gloriose, da fare imparare il mio nome a tutti quanti! Questa parola: “Arturo
Gerace” si deve conoscere per tutti i paesi! […] quando sarò diventato il primo
valoroso, proprio come un vero re […] andrò coi miei fedeli a conquistare le
popolazioni, e insegnerò a tutta la gente la vera bravura! e l’onore! […]
Io voglio spiegare a tutti quanti la
bellezza del valore, che vince la misera viltà!» (p. 116)
L'Arturo che infine abbandona
Procida non si identifica più con la sua isola, non è più un’isola, né
una stella levata alta e distante, a tratti abbacinata dalla luminosità bionda
del padre.
Nel momento in cui si imbarca per
Napoli, accompagnato dal balio che lo ha svezzato con latte di capra e che ora
torna a condurlo verso una nuova vita, Arturo incarna l’essere umano, non già deluso dall'esistenza (dalla quale
peraltro il protagonista si è preservato, protetto nella sua nicchia di mondo),
ma curioso e fiducioso, finalmente capace di sottrarsi a una dimensione di
"sogno" che rischia di trasformarsi in prigione.
«l’isola, per me, che cosa era
stata, finora? un paese d’avventure, un giardino beato! ora, invece, essa mi
appariva una magione stregata e voluttuosa, nella quale non trovavo da
saziarmi, come lo sciagurato re Mida» (p. 267);
«antica chimera multiforme che
m’incantava […] tendeva altre braccia, e aveva diverse preghiere, voci,
sospiri; ma non mutava il suo fatato velo: l’ambiguità, che m’imprigionava […]
come una ragnatela iridescente» (p. 191);
«Io, da quando sono nato, non ho
aspettato che il giorno pieno, la perfezione della vita: ho sempre saputo che
l’isola, e quella mia primitiva felicità, non erano altro che una imperfetta
notte […] la notte della vita […] e aspetto sempre che il mio giorno arrivi,
simile a un fratello meraviglioso con cui ci si racconta, abbracciati, la lunga
noia...» (p. 187).
A questo "muoversi" di
Arturo, al suo cambiare, allontanandosi dallo spazio e dal tempo della
fanciullezza, si contrappone ora in modo evidente la sostanziale immobilità del
padre: sempre in viaggio senza mai "essere" in nessun luogo, capace
di esistere come mito o fantasma ma non come persona reale... Wilhelm Gerace è
un'ingombrante assenza nella vita del figlio e della moglie, «parodia» (p. 316) di se stesso e
dell'Uomo, prigioniero delle proprie incapacità e inquietudini, in una sorta di
"eterna infanzia" («suoi sospiri, che erano infantili eternamente,
come quelli dell'universo!», p. 301), in un'incompletezza e inconsistenza
che giustificano l'abitudine di Arturo a indicare questo personaggio con le
sole iniziali (W.G.).
L'immagine del carcere di Procida,
che ricorre frequentemente nel corso del romanzo, si trasforma in correlativo
oggettivo di questo stato interiore, riflesso di una condizione esistenziale
che esercita su Arturo (e anche sulla matrigna Nunziata) un fascino distante e
misterioso, ma viene evitato e respinto perché in contrasto con la sua forza
vitale («in una dimensione inesorabile, fuori dall'umano, quasi un funebre
Olimpo. Io ero giunto a escluderlo non solo dai miei itinerari abituali, ma,
per quanto era possibile, anche dalla mia vista», p. 304), divenendo nel
suo immaginario la dimensione naturale del padre. Come tutto ciò che riguarda
la figura di Wilhelm, anche la Cittadella si cinge per Arturo di una sorta di «divieto»,
«strano e mostruoso», suscitando in
lui "una specie di pudore sacro" (p. 302) e risvegliandone la «fede bambinesca e superstiziosa» nei
confronti del padre. Anche se ormai questi sembra vivere la prigionia come
condizione permanente, tanto che Arturo, immaginando di udire il coro delle
voci dei galeotti, mentre naviga vicino alla scogliera su cui sorge il
penitenziario, viene sorpreso dal dubbio di poter distinguere tra esse la voce
del padre, «irreale come quella d'un feticcio o d'un morto» (p. 304).
Indifferente alla vita, «in una
magnificenza funeraria, con la sua faccia bianca e deperita» (p. 304),
Wilhelm Gerace si condanna all'esilio della non-identità, dell'affettività inespressa e del desiderio
inappagabile, di un'omossessualità non dichiarata neppure a se stesso ma subita come segreto e
come sottomissione vassallatica verso qualcuno che è sempre "altro" o
sempre “altrove".
Arturo sceglie di crescere e di scoprire
dentro di sé questo “altro” e questo “altrove”, per lui fino ad allora
incarnati dal padre. Sopraggiunge il distacco, la liberazione si compie e
l'addio assume la forma di un'ultima fiaba, in cui «il [...] personaggio
principale non è più Wilhelm Gerace» (p. 230), che sfuma
nell'orizzonte, insieme al profilo dell'isola («Non mi va di vedere Procida
mentre s'allontana [...] Preferisco fingere che non sia esistita», p.379):
«Subitaneo, il ricordo della sua
persona mi accorse alla mente, non come una figura precisa, ma come una specie
di nube che avanzava carica d'oro, d'azzurro torbido; o come un sapore amaro; o
un vocio quasi di folla, ma invece erano gli echi numerosi dei suoi richiami e
parole, che ritornavano da ogni punto della mia vita. E certi tratti propri di
lui, ma quasi trascurabili [...] ritornavano isolati, a farmi battere il cuore,
quasi unici simboli perfetti di una grazia molteplice, misteriosa, senza
fine... E di un dolore che mi si faceva più acerbo per questo motivo: perché
sentivo che esso era una cosa fanciullesca [..]. lo avrei dimenticato,
naturalmente, tradito. Di qui sarei passato a un'altra età, e avrei riguardato
a lui come a una favola» (p. 376)
Arturo viene traghettato dalla fiaba
alla realtà, verso la pienezza ignota della vita, finalmente oltre le sue «Colonne d’Ercole»,
laddove «i beati rumori e iridescenze della realtà sono un teatro
incantato che innamora ogni cuore vivente fino all’ultimo» (p. 245).