lunedì 12 maggio 2014

L'isola di Arturo

Elsa Morante
(introduzione di Cesare Garboli)
Torino, Einaudi
pp. 398


Un'isola è un luogo magico, una parentesi si terra sospesa nel tempo e tra le acque, una dimensione di “alterità” in cui l’esistenza può determinarsi e svolgersi secondo ritmi propri e gesti che assumono quasi il significato di rituali collettivi:

«I Procidani sono scontrosi, taciturni. Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano   piace. E l’arrivo di un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza. Se esso fa delle domande, gli rispondono di malavoglia; perché la gente, nella mia isola, non ama d’essere spiata nella propria segretezza» (p. 14).

L’ambiente che fa da scenario alla storia narrata è (almeno nel nome) Procida, “la mia isola” come la definisce più volte il protagonista, Arturo, per il quale essa coincide con l’Ecumene: le sue coste ritagliano i confini dell’esistenza vivibile, al di là dei quali si estende l’infinità di un mondo “pensabile” ma irraggiungibile. L’isola, con la sua “casa dei Guaglioni” (una dimora che coniuga i tratti del castello fiabesco, del luogo stregato e di un monumento al timore misogino), rappresenta per lui un rifugio, un ampliamento dell'alveo materno, una nicchia nella Storia, che custodisce gelosamente una porzione di vita e natura sottratte alla terraferma e al mondo, e nella quale egli si protegge dai venti che sferzano il resto del mondo e dell’umanità. Arturo è l’isola, al tempo stesso unico specchio nel quale assume un’apparente definizione la figura paterna e conchiglia in cui risuona l’eco di una presenza materna perduta e mai conosciuta («Figurina stinta, mediocre quasi larvale; ma  adorazione fantastica di tutta la mia fanciullezza», p. 11; «la mia regina orientale, la mia sirena», p. 73).

Simbolo dell’inesperienza sognante, dell’infanzia creativa e affascinata, dei legami affettivi imprescindibili per quanto inafferrabili, l’isola napoletana perde qualsiasi concretezza oggettiva, qualsiasi identificabilità geografica; smette di essere un luogo per trasformarsi in "spazio"; non è più un "dove" bensì un “altrove”. Tutto si svolge qui, ma nulla di fatto vi accade. E il protagonista, creatura celeste (eponimo di una stella) vive sospeso tra terra e mare, destinato a innalzarsi al di sopra dei confini terreni e marini e di qualsiasi mediocrità umana, dovrà cercare proprio al di là di essi la sua piena identità, la sua vera esistenza.

«Arturo è una stella […] questo nome fu portato pure da un re dell’antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli» (p. 11)

In una sorta di Paradiso non ancora “perduto”, Il protagonista conduce un'esistenza "selvatica", vive la sua fanciullezza immerso in una natura marina che lo culla e con la quale egli sembra fondersi e identificarsi panicamente:

«i miei occhi e i miei pensieri lasciavano il cielo […] riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo riguardavo, palpitava verso di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era grande e fantastico, e possedeva territori che non si potevano contare, diversi uno dall’altro, come centomila pianeti!» (p. 180)

Arturo cresce in profonda solitudine a causa della frequente lontananza del padre, che del suo mondo irreale e inconsistente è la personificazione e il fulcro:

«io credevo di sentire il suo respiro, continuo e rassicurante come quello del mare. Il presente mi pareva un’epoca perenne, come una festa di fate» (p. 126);
«il ricordo di lui invadeva tutta l’isola come una moltitudine insidiosa, affascinante. Lo riconoscevo nel sapore dell’acqua di mare, della frutta; passava lo stridio di un gufo, di un gabbiano, e mi pareva lui che chiamasse: “Ehi, moro!” Il vento autunnale mi buttava addosso degli spruzzi, o delle folate di sabbia; e mi pareva lui che mi provocasse scherzando. […] come un invasore, s’impadroniva a questo modo della mia isola; ma pure sapevo che l’isola non mi sarebbe piaciuta tanto se non fosse stata sua, indivisibile dalla sua persona». (p. 191)


Wilhelm Gerace è ovunque e sempre assente; figura eterea e sfuggente, irraggiungibile nella sua perfezione “superumana”, avvolta da una nebbia imperscrutabile, intorno alla quale Arturo tesse magnifiche fiabe, misteriose leggende, immaginando mitiche origini, avventure epiche e gesta eroiche.

«La mia infanzia è come un paese felice del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza» (p. 28);
 «Per me, che non potevo attribuire, a lui, nessun capriccio umano, il suo broncio era maestoso come l’oscurarsi del giorno, indizio certo di eventi misteriosi, e importanti come la Storia Universale.Le sue ragioni appartenevano soltanto a lui. Ai suoi silenzi, alle sue feste, ai suoi disprezzi, ai suoi martiri, io non cercavo una spiegazione. Erano, per me, come dei sacramenti: grandi e gravi, fuori d’ogni misura terrestre, e d’ogni futilità» (p. 30);

«Nella mia nostalgia, mi facevo di lui, un ritratto romantico, e non troppo rassomigliante […] Mi rappresentavo W. G. come una sorta di grande angelo affettuoso, il solo amico mio sulla terra: colui al quale potrei confessare, forse, tutte le mie ambasce, anche quelle inconfessabili, e che potrebbe capirmi, spiegarmi ciò che non capivo! […] mi attaccavo alla visione angelica di mio padre come all’unico rifugio sperato». (p. 269)

Tutto ciò che lo circonda e lo riguarda assume agli occhi di Arturo una connotazione quasi sacrale, e l’idea del padre diviene per lui termine di un inesauribile paragone, indirizzo ultimo di ogni suo atto di coraggio e di maturità, ma anche la fonte inevitabile di ogni sua umiliazione, del suo senso d'inferiorità, della sua solitudine.
Seguendo con la mente e con il desiderio le peregrinazioni paterne attraverso il mare, verso terre lontane e mete sconosciute, il protagonista trascorre la sua infanzia nell'attesa solitaria e silenziosa di una "dignità" adulta che gli conquisti il rispetto del genitore.

«Aspetta d’essere cresciuto, per partire con me.” Ebbi un pensiero di rivolta contro l’assolutezza della vita, che mi condannava a percorrere una siberia sterminata di giorni e di notti prima di togliermi a questa amarezza: d’essere un ragazzino. Dall’impazienza, in quel momento, mi sarei perfino assoggettato a un lunghissimo letargo, che mi facesse attraversare senza accorgermene le mie età inferiori, per ritrovarmi, d’un tratto, uomo, peri a mio padre. “Pari a mio padre!” Purtroppo, io (pensai, guardandolo), anche quando mi farò uomo, non potrò mai essere pari a lui. Non avrò mai i capelli biondi, né gli occhi viola-celesti, né sarò mai così bello!!» (pp. 44-45)


Nel frattempo Arturo si conforta con le sue letture e le avventure a bordo della Torpediniera delle Antille, con l'amicizia della cagna Immacolatella e col senso di una "presenza" materna che oltrepassa i confini della morte e resta "sospesa" nell'aria, circondata di azzurro. Sua madre, morta nell'atto di dargli la vita, è l'unica creatura per la quale egli sa immaginare un Paradiso altrimenti rifiutato, insieme a qualsiasi idea di Dio o di esistenza ulteriore:

Ad ascoltare la ragione, sapevo che tutto quanto restava di mia madre era rinchiuso sotto terra, nel cimitero di Procida. Ma la ragione, davanti a lei, si ritraeva, e, senza rendermene conto, io, per lei, credevo addirittura in un paradiso.(p. 52)

Così Procida diviene al tempo stesso un nido, un Eden, una prigione e una tomba, ma anche una «grande nave piena di vento oceanico, in rotta su itinerari stupendi» (p. 56), a bordo della quale Arturo veleggia attraverso l'innocenza favolosa dell'infanzia, carica di sogni mitici, aspettativa e anche inesperienza, verso l'infinita potenzialità del futuro, alla volta un'età adulta vagheggiata come epoca di libertà, movimento, acquisizione di una dignità e di una virilità paragonabili a quelle paterne, di una propria “bellezza” e consapevolezza di sé:

«Osservandolo, io mi accorgevo di qualche ruga che aveva sotto gli occhi, in mezzo ai sopraccigli, presso i labbri. Pensavo, con invidia: Sono i segni dell’età. Quando anch’io avrò le rughe, sarà segno che sono diventato grande, e a quell’epoca io e lui porremo stare sempre insieme» (p. 56) ;

«Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le terre, e tutta la vita!» (p. 180)

La conquista dell'"adultità" si realizza per il protagonista attraverso la progressiva apertura verso il sesso femminile, che porta con sé la  scoperta dell'amore: «Adesso, imparavo che tanti poeti dicono il vero, affermando la poca costanza delle donne. E anche sulla bellezza delle donne, essi non mentono» (pp. 240-241).
Ma si tratta ancora di un sentimento immaturo, inconsapevole, oltre che "illecito"; una prima forma di "iniziazione" alla vita che conserva l'aspetto violento, "fiabesco" e totalizzante che caratterizzava il legame col padre, nei confronti del quale rappresenta un primo distacco:
«pur senza guardarla, al modo di un pellegrino bendato, il pensiero ritornava a lei […] d’improvviso, il rumore delle onde, il fischio dei vapori, tutti i suoni dell’isola e del cielo, parevano gridare insieme: “Nunziata! Nunziatella!”» (pp. 264-265);
«il dubbio che le sue parole fossero davvero un ritratto dei suoi sentimenti [...] bastò a precipitarmi in una tristezza agghiacciante, come se m'avessero condannato, d'un tratto, a finire l'esistenza in una notte polare» (p. 293).

L'esplorazione del mondo implica per Arturo la presa di coscienza delle passioni proprie e altrui, l’accettazione dell'umanità di cui sono espressione, dell'imperfezione, debole, terrena, cui anche il padre viene finalmente abbassato.
L’“iniziazione” di Arturo alla vita coinciderà con la caduta delle illusioni mitiche, con l’epilogo delle favole che lui stesso ha tessuto nel corso degli anni per avere una storia in cui collocarsi, un "lieto fine" da aspettare, una partenza eroica cui prepararsi.

«Oggi, provavo compatimento per quella mia antica illusione […] Questo bel paesaggio infantile […] l’atmosfera e l’acqua […] tutte e due così limpide […] Ogni cosa appariva chiara, precisa e isolata in se stessa; ma pure, gli innumerevoli punti delle cose si mischiavano insieme in un colore divino e festante, verde, celeste e oro». (p. 245)

Ma contrariamente a quanto avviene in tante esistenze e in tanta letteratura, questo passaggio non costituisce qui un trapasso violento o doloroso, ma si presenta come un esito positivo e spontaneo, coerente con la naturalità della vita “embrionale” di Arturo. Il protagonista bambino è il "fanciullino" pascolano, che sa guardare il mondo con stupore e purezza intellettuale e sentimentale, prefigurando per sé e per gli altri scenari eccezionali e situazioni iperboliche, con l'aiuto della fantasia letteraria racchiusa nei libri che legge.

«Voglio compiere delle azioni gloriose, da fare imparare il mio nome a tutti quanti! Questa parola: “Arturo Gerace” si deve conoscere per tutti i paesi! […] quando sarò diventato il primo valoroso, proprio come un vero re […] andrò coi miei fedeli a conquistare le popolazioni, e insegnerò a tutta la gente la vera bravura! e l’onore! […] Io  voglio spiegare a tutti quanti la bellezza del valore, che vince la misera viltà!» (p. 116)

L'Arturo che infine abbandona Procida non si identifica più con la sua isola, non è più un’isola, né una stella levata alta e distante, a tratti abbacinata dalla luminosità bionda del padre.
Nel momento in cui si imbarca per Napoli, accompagnato dal balio che lo ha svezzato con latte di capra e che ora torna a condurlo verso una nuova vita, Arturo incarna l’essere umano, non già deluso dall'esistenza (dalla quale peraltro il protagonista si è preservato, protetto nella sua nicchia di mondo), ma curioso e fiducioso, finalmente capace di sottrarsi a una dimensione di "sogno" che rischia di trasformarsi in prigione.

«l’isola, per me, che cosa era stata, finora? un paese d’avventure, un giardino beato! ora, invece, essa mi appariva una magione stregata e voluttuosa, nella quale non trovavo da saziarmi, come lo sciagurato re Mida» (p. 267);
«antica chimera multiforme che m’incantava […] tendeva altre braccia, e aveva diverse preghiere, voci, sospiri; ma non mutava il suo fatato velo: l’ambiguità, che m’imprigionava […] come una ragnatela iridescente» (p. 191);
«Io, da quando sono nato, non ho aspettato che il giorno pieno, la perfezione della vita: ho sempre saputo che l’isola, e quella mia primitiva felicità, non erano altro che una imperfetta notte […] la notte della vita […] e aspetto sempre che il mio giorno arrivi, simile a un fratello meraviglioso con cui ci si racconta, abbracciati, la lunga noia...» (p. 187).

A questo "muoversi" di Arturo, al suo cambiare, allontanandosi dallo spazio e dal tempo della fanciullezza, si contrappone ora in modo evidente la sostanziale immobilità del padre: sempre in viaggio senza mai "essere" in nessun luogo, capace di esistere come mito o fantasma ma non come persona reale... Wilhelm Gerace è un'ingombrante assenza nella vita del figlio e della moglie, «parodia» (p. 316) di se stesso e dell'Uomo, prigioniero delle proprie incapacità e inquietudini, in una sorta di "eterna infanzia" («suoi sospiri, che erano infantili eternamente, come quelli dell'universo!», p. 301), in un'incompletezza e inconsistenza che giustificano l'abitudine di Arturo a indicare questo personaggio con le sole iniziali (W.G.).

L'immagine del carcere di Procida, che ricorre frequentemente nel corso del romanzo, si trasforma in correlativo oggettivo di questo stato interiore, riflesso di una condizione esistenziale che esercita su Arturo (e anche sulla matrigna Nunziata) un fascino distante e misterioso, ma viene evitato e respinto perché in contrasto con la sua forza vitale («in una dimensione inesorabile, fuori dall'umano, quasi un funebre Olimpo. Io ero giunto a escluderlo non solo dai miei itinerari abituali, ma, per quanto era possibile, anche dalla mia vista», p. 304), divenendo nel suo immaginario la dimensione naturale del padre. Come tutto ciò che riguarda la figura di Wilhelm, anche la Cittadella si cinge per Arturo di una sorta di «divieto», «strano e mostruoso», suscitando in lui "una specie di pudore sacro" (p. 302) e risvegliandone la «fede bambinesca e superstiziosa» nei confronti del padre. Anche se ormai questi sembra vivere la prigionia come condizione permanente, tanto che Arturo, immaginando di udire il coro delle voci dei galeotti, mentre naviga vicino alla scogliera su cui sorge il penitenziario, viene sorpreso dal dubbio di poter distinguere tra esse la voce del padre, «irreale come quella d'un feticcio o d'un morto» (p. 304).

Indifferente alla vita, «in una magnificenza funeraria, con la sua faccia bianca e deperita» (p. 304), Wilhelm Gerace si condanna all'esilio della non-identità, dell'affettività inespressa e del desiderio inappagabile, di un'omossessualità non dichiarata neppure a se stesso ma subita come segreto e come sottomissione vassallatica verso qualcuno che è sempre "altro" o sempre “altrove".

Arturo sceglie di crescere e di scoprire dentro di sé questo “altro” e questo “altrove”, per lui fino ad allora incarnati dal padre. Sopraggiunge il distacco, la liberazione si compie e l'addio assume la forma di un'ultima fiaba, in cui «il [...] personaggio principale non è più Wilhelm Gerace» (p. 230), che sfuma nell'orizzonte, insieme al profilo dell'isola («Non mi va di vedere Procida mentre s'allontana [...] Preferisco fingere che non sia esistita», p.379):

«Subitaneo, il ricordo della sua persona mi accorse alla mente, non come una figura precisa, ma come una specie di nube che avanzava carica d'oro, d'azzurro torbido; o come un sapore amaro; o un vocio quasi di folla, ma invece erano gli echi numerosi dei suoi richiami e parole, che ritornavano da ogni punto della mia vita. E certi tratti propri di lui, ma quasi trascurabili [...] ritornavano isolati, a farmi battere il cuore, quasi unici simboli perfetti di una grazia molteplice, misteriosa, senza fine... E di un dolore che mi si faceva più acerbo per questo motivo: perché sentivo che esso era una cosa fanciullesca [..]. lo avrei dimenticato, naturalmente, tradito. Di qui sarei passato a un'altra età, e avrei riguardato a lui come a una favola» (p. 376)

Arturo viene traghettato dalla fiaba alla realtà, verso la pienezza ignota della vita,  finalmente oltre le sue «Colonne d’Ercole», laddove «i beati rumori e iridescenze della realtà sono un teatro incantato che innamora ogni cuore vivente fino all’ultimo» (p. 245).




1 commento:

  1. Fernando Pessoa: Le isole fortunate

    Quale voce viene sul suono delle onde
    che non sia la voce del mare?
    È la voce di qualcuno che ci parla,
    ma che se ascoltiamo tace,
    proprio per esserci messi ad ascoltare.

    E solo se mezzo addormentati,
    udiamo senza sapere che udiamo,
    essa ci parla della speranza
    verso la quale, come un bambino
    che dorme, dormendo sorridiamo.

    Sono isole fortunate,
    sono terre che non hanno luogo,
    dove il Re vive aspettando.
    Ma, se vi andiamo destando
    tace la voce e solo c'è il mare.

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