la Fama, fulminea tra tutti i mali; possiede
vigore di movimento, e acquista forze con l'andare;
dapprima piccola e timorosa; poi si solleva nell'aria,
e avanza sul suolo, e cela il capo tra le nubi
[...] eloce di passi e d'infaticabili ali,
mostro orrendo, immane [...]
[...] tanti vigili occhi ha [...]
tante lingue, e altrettante bocche risuonano e orecchi protende.
Di notte vola tra il cielo e la terra nell'ombra,
stridendo, e non chiude gli occhi al dolce sonno;
di giorno siede spiando [...]
tenace messaggera tanto del falso e malvagio, quanto del vero.
(Virgilio, Eneide, libro IV, vv. 174- 188)
Come si può diventare schiavi del proprio talento? vittime dell'arte e del proprio successo?
Quanto è sottile il confine tra il piacere della scrittura e l'incubo della fama?
E come ci si può sottrarre all'assurda minaccia di una notorietà non desiderata ma imposta dall'esterno, come un habitus scomodo e detestato?
Protagonista del romanzo è "lei", Silvia Roncella, giovane tarantina trasferitasi a Roma; donna e scrittrice, prima che moglie e madre. Eppure il titolo ci avverte di un protagonismo defrauato: è lei l'artista della parola, la mente creatrice, il personaggio "nobile" del romanzo; eppure è "suo marito" che occupa la scena e muove i fili della sua arte, mentre lei, marionetta impotente, si ritrova a mimare il suo ruolo nel teatrino del mercato delle parole.
Attorno le si muovono innumerevoli personaggi, nelle loro maschere tristi: Attilio Raceni, direttore della "rassegna femminile (non femminista) 'Le Muse'" (p. 21), Dora Barmis "prima musa" (p. 22), donna Francesca Lampugnani, Donna Maria Rosa Bornè-Laturzi, "onesta gallina faraona [...] decorativa" (p. 29), Filiberto Litti, Bardozzi, Centanni, Federici, eccetera. Una lista di nomi senza volto e senza spessore, che restano sospesi in aria, agganciati a qualche generico epiteto.
Attorno le si muovono innumerevoli personaggi, nelle loro maschere tristi: Attilio Raceni, direttore della "rassegna femminile (non femminista) 'Le Muse'" (p. 21), Dora Barmis "prima musa" (p. 22), donna Francesca Lampugnani, Donna Maria Rosa Bornè-Laturzi, "onesta gallina faraona [...] decorativa" (p. 29), Filiberto Litti, Bardozzi, Centanni, Federici, eccetera. Una lista di nomi senza volto e senza spessore, che restano sospesi in aria, agganciati a qualche generico epiteto.
Poche le eccezioni, tra cui Maurizio Gueli, "l'illustre scrittore, il Maestro, che da circa dieci anni né sollecitazioni d'amici né ricche profferte di editori riuscivano a smuovere dal silenzio in cui s'era chiuso" (p. 38), scrittore alienato, artista sacrificato e uomo tenuto in "schiavitù" dal dispotismo muliebre di Livia Frezzi..."colei che gli aveva ispirato una abominazione profonda e invincibile d'ogni altro abbraccio e lo teneva in tale stato di schiva timidità ombrosa, da non poter più non che aver contatto, ma neppur pensare al contatto d'altra donna" (p. 167).
Riuniti in quella che si pretende una "fraterna agape letteraria" (p. 22), queste comparse partecipano a una grottesca rivisitazione del banchetto cumano descritto da Petronio: un "moderno simposio", "con le invidie segrete che fiorivano sulle labbra di questo e di quello in dalsi sorrisi e in complimenti avvelenati; con le gelosie mal nascoste, che tiravan qua e là due a maldicenze sommesse; con le ambizioni insoddisfatte e le illusioni fatue e le aspirazioni che non trovavan modo di manifestarsi; teneva schiave tutte quelle anime irrequiete per lo sforzo che a ciascuna costava la simulazione e la difesa. [...] friggevano quelle anime nelle loro chiacchiere, tra cui la malizia di tratto in tratto drizzava le corna" (p. 42).
E' in questo mondo che la giovane Silvia viene gettata, prima dal padre e poi dal marito; lei che scriveva per un "vizio" segreto, una necessità interiore e intima, avvertita quasi con vergogna, come una colpa, si vede improvvisamente costretta a fare commercio del suo talento, strappata al silenzio della pagina e costretta alla fama, ad un successo che vissuto come una violenza:
La scrittura di Silvia, motivata dal bisogno di proiettare in mondi "altri", popolati da personaggi diversi da sè, aspetti inconfessabili del reale e della propria indole, viene sottratta all'ombra dell'anonimato, e trasformata da fonte di catarsi in costrizione claustrofobica:
Colpevole di questa perdita di libertà, identità, slancio di vita e creatività è lui, "suo marito", improvvisatosi agente o manager, operoso giullare, ridicolmente ostinato nel suo intento di portare a gloria internazionale il nome della moglie, e di trarre il massimo profitto dalla sua arte, che solo per merito suo (piuttosto che per intrinseco pregio) poteva ottenere un qualche riconoscimento.
Determinato in tale scopo e convinto della nobiltà del suo "sacrificio", Giustino si fa strada, con sgraziata invadenza, nel mondo letterario e soprattutto nell'intimità creativa della moglie.
Avrebbe voluto rimanere laggiù presso al suo mare, nella casa ov'era nata e cresciuta, dove si vedeva ancora, ma con l'impressione strana che fosse un'altra, quella là, sì, un'altra se stessa c'ella stentava a riconoscere. [...] E quella là scriveva? aveva potuto scrivere tante cose? come? perchè? chi gliel'aveva insegnate? donde le erano potute venire in mente? [...] veniva a lei di scrivere spontaneamente, così, all'improvviso. Forse non si dovevano scrivere tali cose? Era un errore scriverle a quel modo? Ella, o piuttosto, quella là non lo sapeva. Non avrebbe mai pensato a stamparle, se il padre non gliele avesse scoperte e strappate dalle mani. Ne aveva avuto vergogna, la prima volta, una gran paura di sembrare strana, quando non era tale, per nulla. [...]
Più che soddisfazione, nel vedere accolto favorevolmente e lodato con molto calore il suo primo libro, ella aveva provato una gran confusione, un'ambascia, una costernazione smaniosa. Avrebbe saputo più scrivere, ora, come prima? non più per sé soltanto? Il pensiero della lode le si affacciava, e la turbava; si poneva tra lei e le cose che voleva descrivere o rappresentare. [...] Era cominciato il combattimento interno, da allora. (pp. 60-61).
La scrittura di Silvia, motivata dal bisogno di proiettare in mondi "altri", popolati da personaggi diversi da sè, aspetti inconfessabili del reale e della propria indole, viene sottratta all'ombra dell'anonimato, e trasformata da fonte di catarsi in costrizione claustrofobica:
Ella non si conosceva ancora, e non voleva conoscersi. Avrebbe dovuto parlare, mostrarsi... e che dire? [...] Quel che di volutamente angusto, di primitivo e di casalingo era in lei s'era ribellato [...] Quanto aveva sofferto durante quel banchetto, esposta lì, come a una fiera! (p. 61).
Ella vedeva bene che il marito non la comprendeva, o meglio, non comprendeva di lei quella parte ch'ella stessa, per non parir singolare dalle altre, voleva tener nascosta in sé e infrenata, che ella stessa non voleva nè indagare nè penetrare fino in fondo. Se un giorno questa parte avesse preso in lei il sopravvento, dove la avrebbe trascinata? Dapprima, quando Giustino, pur senza comprendere, s'era messo a spingerla, a forzarla al lavoro, allettato dagli insperati guadagni, ella sì, aveva provato un vivo compiacimento [...] Avrebbe voluto, però, che egli si fosse arrestato lì [...] (p. 61).
ora egli s'era messo a far bottega di quel segreto [...] s'era messo a vendere e a gridare con tanto baccano la merce, perchè tutti entrassero nel vivo segreto di lei e vedessero e toccassero (p. 146).
Non aveva mai lavorato così, volendo e costruendo la sua opera. L'opera, appena intuita, s'era sempre voluta invece lei stessa, prepotentemente, senza che ella provocasse nel suo spirito alcun movimento atto a effettuarla. Ogni opera in lei s'era sempre modda da sé, perchè da sé soltanto s'era voluta; ed ella non aveva mai fatto altro che obbedire docile e con amor seguace a questa volontà di vita, a ogni suo spontaneo movimento interiore (p. 156).Il successo si stringe attorno alla protagonista, intrappolandola in un ruolo che appare sempre più irreversibile: la recita della "celebrità" sembra privarla di qualsiasi altra identità, depotenziare ogni ruolo, sottrarla alla vita:
Si sentiva arida e vuota, e in quell'aridità e in quel vuoto smaniava. (p. 156)
Soltanto per creare ella era nata, e non già per produrre materialmente stupide cose, né per impacciarsi e perdersi tra esse (p. 118); "A un solo patto avrebbe potuto seguitare a convivere col marito, cioè a patto di rinunziare all'arte"; "chiudersi tutta nell'ufficio della maternità", "Ma poteva più ora? [...] né esser madre né lavorare poteva più" (p. 159).
Colpevole di questa perdita di libertà, identità, slancio di vita e creatività è lui, "suo marito", improvvisatosi agente o manager, operoso giullare, ridicolmente ostinato nel suo intento di portare a gloria internazionale il nome della moglie, e di trarre il massimo profitto dalla sua arte, che solo per merito suo (piuttosto che per intrinseco pregio) poteva ottenere un qualche riconoscimento.
Determinato in tale scopo e convinto della nobiltà del suo "sacrificio", Giustino si fa strada, con sgraziata invadenza, nel mondo letterario e soprattutto nell'intimità creativa della moglie.
"Ma dunque è vero, proprio vero, questo trionfo?" E pareva avesse paura di crederlo vero, o fosse all'improvviso assaltata dal dubbio che ci fosse sotto sotto qualcosa di combinato, tutta una macchinazione ordita dal marito che si dava tanto da fare, una gonfiatura, ecco, per cui ella dovesse provare, più che sdegno, onta, come per una irriverenza indecente alla sua maternità [...] e uno strappo, una violenza alle sue modeste, raccolte abitudini (p. 102).Silvia assiste impotente allo spettacolo clownesco del marito, che espone se stesso e lei all'umiliazione della beffa e della pubblica derisione, della mortifiazione che assume progressivamente i tratti di un incubo allucinato:
Fin nel fruscìo degli abiti, nel lieve sgrigliolìo delle scarpe attutio dalla spessezza dei tappeti, in ogni rumore, fosse d'una seggiola smossa, d'un uscio aperto, d'un cucchiaino agitato nella tazza; e poi nel frastuono del pianoforte [...] sorrisetti, risatine, sghigni, scrosci di risa fragorose, sbardellate, squacquerate, parve a Silvia d'avvertire, e le sembrò dileggio ogni sorriso di deferenza o di compiacimento per lei; il dileggio credette di scorgere in ogni sguardo, in ogni gesto, in ogni parola dei tanti convitati. (p. 141)
Come avrebbe fatto ella a resistere a quel supplizio [...]? (p. 139).
Se Silvia può forse pensare di sottomettersi alla violenza, in nome di una gratitudine non provata ma "dovuta" a Giustino, non può farsi complice della loro comune umiliazione e allora lo scuote, lo mette di fronte all'assurdità del suo comportamento, all'ipocrisia che si cela dietro i sorrisi che riceve e le mani che stringe, credendo di dargli uno scrollo poderoso, per salvarlo e salvarsi, facendo cadere anche a lui la benda dagli occhi (p. 140). Sarà un'amara epifania la scoperta che il marito è consapevole delle beffe di cui si è reso e l'ha resa oggetto, e vi si sottopone di buon grado se esse rappresentano il prezzo da pagare per ottenere qualche vantaggio più grande:
dunque, egli sapeva? se n'era già accorto? e aveva seguitato, senza curarsene, e voleva ancora seguitare? non gl'importava affatto che tutti ridessero di lui e di lei? [...] voleva dir forse che per lui era tutta una cosa da ridere la letteratura, una cosa di cui un uomo di sano criterio, sagace e accorto, non avrebbe potuto impacciarsi se non così, cioè a patto di trar profitto dalle risa degli sciocchi che la prendevano sul serio? (pp. 140-141)
E' a questo punto che scatta la ribellione, meditata nella freddezza estranea della "nuova casa", con la complicità spirituale di Maurizio Gueli, unica figura con cui la protagonista condivide il sentimento di estraneità alla dimensione in cui sono prigionieri, l'intimo senso di
una profonda scissione, il "non riconoscersi più" e al tempo stesso lo
scoprirsi consapevoli di un'ineliminabile duplicità: il "vedersi
vivere", l'esistere in due esseri diversi: uno per sè, uno per gli altri;
Era in entrambi, la stessa cosicenza, che un minimo atto, una minima concessione, un minimo abbandono, avrebbe determinato un rivolgimento assoluto e intero della loro esistenza (p. 175).
Ma mentre il personaggio maschile si rivela debole, perchè troppo abituato alla rinuncia totale a se stesso, alla propria natura spontanea ("egli
reprimeva in sé ogni moto, soffogava anche i più innocenti desuderi, si
vietava tutto, fin anche di sorridere a una visione d'arte che gli
passase e la mente, e di parlare e di guardare [...] così violentato,
così escluso da ogn'altra vita", p. 171), e preferisce abbandonarsi alla sua "schiavitù", alla "non vita" come a un rifugio, Silvia Roncella sceglie di vivere per sé,
a costo di sacrificare il marito (e il figlio?). Sceglie di abbandonare non l'arte ma la casa non amata, il marito non stimato, la vita non voluta... Non rinuncia neppure alla fama cui è ormai stata iniziata. Ma ormai la vive come conseguenza naturale del proprio talento, non come frutto di un commercio ipocrita di di convenienze. E mentre Silvia rinasce a una nuova esistenza e a una rinnovata identità, il romanzo si concluderà con due morti, una letterale (quella del figlioletto di Silvia) e una "letteraria" o meglio
"editoriale": Giustino nel suo ruolo di "agente", in qualche modo di
"editore" della fama della moglie, dovrà arrendersi alla "fuga dello
scrittore", all'affermazione di autonomia di Silvia, come donna e come
artista:
Straziato da questo esilio, ch'era d'un passo e infinito, dalla sua stessa vita, la quale, ecco, viveva là, fuori di lui, innanzi a lui, e lo lasciava spettatore inerte della sua propria miseria, della sua nullità adesso (p. 204);E' la rivincita della letteratura sulle leggi del mercato, dello scrittore sull'opera, del genio sulla regola, ma anche l'affermazione di una frattura che interviene a separare l'arte dalla vita, lo scrittore dalla banalità quotidiana...
Era uno lì della folla, confuso con tutti... eh no, no, neppur questo: neanche de la folla egli poteva più far parte: egli non doveva esserci, ecco; e non c'era, di fatti: chiuso, nascosto lì in un palchetto che tutti dovevano creder vuoto, l'unico vuoto, perchè c'era uno che non doveva esserci... (p. 207);
La morte per lui non era tanto in quella piccola bara, quanto [...] nella definitiva partenza di lei. Quel ch'era morto di lui nel suo bimbo era ben poco a confronto di quel che di lui moriva con l'allontanamento della moglie. [...] doveva deporre [...] nelle mani della moglie gli ultimi resti della sua vita (p. 221).
Pirandello muove una critica niente affatto velata al mondo letterario e alla tirannia dei meccanismi dell'industria editoriale, di cui Giustino Boggiolo diviene la grottesca incarnazione: un mondo in cui la professione del letterato si riduce in una "continua offerta di sé, in un continuo commercio di vanità, in un accatto di fatue soddisfazioni, in un perpetuo struggimento di piacere altrui e d'averne lodi" (p. 169); "un continuo giuoco di finzioni [...] Fingere, fingere sempre, dare apparenza di realtà a tutte le cose non vere" (p. 170).
Attraverso la metafora del sopruso familiare, vera e propria "violenza domestica" da parte di un marito disposto a fare "mercato, anche a costo della dignità di lei" (p. 145), l'autore denuncia la subordinazione dell'arte alle ragioni del mercato e l'asservimento dello scrittore alla logica imprenditoriale di un'editoria la cui autorità è in realtà una chimera: esiste solo in virtù di quel genio che sottomette e umilia, di quegli scrittori che imbriglia nelle sue maglie e priva di libertà di moviemento... Senza tale vassallaggio "poetico", senza il nutrimento dell'arte, l'editoria soccombe; solo allora lo scrittore può ritrovare l'appagamento dell'attività creativa, lo slancio necessario a "lasciar la fatuità dei miseri casi dell'esistenza quotidiana, la fatuità degli uomini che, senz'accorgersene, vàgolano immersi nel vortice immenso della vita" (p. 220), per proiettarsi in una vita "altra"...non necessariamente meno "vera".
Attraverso la metafora del sopruso familiare, vera e propria "violenza domestica" da parte di un marito disposto a fare "mercato, anche a costo della dignità di lei" (p. 145), l'autore denuncia la subordinazione dell'arte alle ragioni del mercato e l'asservimento dello scrittore alla logica imprenditoriale di un'editoria la cui autorità è in realtà una chimera: esiste solo in virtù di quel genio che sottomette e umilia, di quegli scrittori che imbriglia nelle sue maglie e priva di libertà di moviemento... Senza tale vassallaggio "poetico", senza il nutrimento dell'arte, l'editoria soccombe; solo allora lo scrittore può ritrovare l'appagamento dell'attività creativa, lo slancio necessario a "lasciar la fatuità dei miseri casi dell'esistenza quotidiana, la fatuità degli uomini che, senz'accorgersene, vàgolano immersi nel vortice immenso della vita" (p. 220), per proiettarsi in una vita "altra"...non necessariamente meno "vera".
Oh vana gloria de l'umane posse!
RispondiEliminacom' poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l'etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l'uno a l'altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà del nido.
Non è il mondan romore altro ch'un fiato
di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi',
pria che passin mill' anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
altro che polpetta! questo è un polpettone !!!!!
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