Dal 6 al 29 marzo 2015 al Teatro Elfo Puccini
Testo Valentina Diana
Regia Elena Russo Arman
Musiche Alessandra Novaga
con Elana Russo Arman, Cristian Gianmarini
Produzione Teatro dell’Elfo
Prima
nazionale
Anche alla felicità bisogna allenarsi, passando attraverso
l’esercizio della rabbia, della violenza, del desiderio di sopraffazione; e
dunque occorre una “palestra” in cui sfogare queste pulsioni, in cui
sublimarle catarticamente e scaricare la tensione che suscitano sull’essere
umano. Occorre un luogo “sospeso”, fuori dal tempo e dallo spazio reali, in cui
vivono creature primordiali o provenienti dal futuro, in cui le teiere parlano
(rivelando maggiore saggezza delle creature tradizionalmente reputate razionali)
e in cui ci si uccide con pistole di plastica, e per tornare alla vita basta
raccogliere una nuova maschera dal pavimento.
Sette scene e una sola storia che si ripete; «non c’è un
inizio, non c’è una fine», solo un alternarsi di personaggi umoristici che
mettono in scena la natura tragicomica dei rapporti umani: una madre che ossessiona
il figlio («troppo sensibile, troppo delicato […] un perdente, un molle») con
sproloqui insignificanti suscitati da un aneddoto sulle «cozze»; un donna col
mal di testa che chiede al compagno perché, pur trovandola attraente,
preferisce il corso di apnea piuttosto che dedicarle del tempo nel week end; un marito razzista e
prevaricatore che schiaccia la moglie sotto il peso della sua cultura («Io ho studiato; ho sostenuto due esami sulle figure retoriche nel Petrarca e due esami di semiologia e
critica lessicografica nei Vangeli apocrifi […] Se dico una cosa è perché la so
[…] Se non hai cultura non sei nessuno; tu non hai spessore, non esisti»); una
coppia senza figli, con un «rapporto morboso» con i propri pesci («Gli fai del
male con i tuoi comportamenti concessivi e lassisti, dandogli da mangiare di
nascosto quintalate di plancton») ma di fatto incapace di riconoscersi («Chi
sono io per te? […] Chi sei tu che porti la parrucca?») e perfino di litigare.
Vite qualsiasi in scenari domestici, dialoghi inconsistenti
(talvolta trasformati in monologhi da personaggi troppo ingombranti), morti
tragiche, eccessive e assurde; “scene” (in senso letterale) tenute insieme da
due personaggi (Marta e il suo collega attore e aspirante innamorato) che si
interrogano su come continuare la recita, su quale parte assumere in modo
definitivo e su quale direzione dare alla trama. A loro è affidata la
riflessione metateatrale sullo spettacolo fittizio quale “luogo” per dare forma
e voce alle situazioni che nella vita realmente vissuta si caricano di
un’assurdità, un’ironia e talvolta una tristezza che possono risultare
insopportabili: «Se tu mi sposassi, almeno ci sarebbe una storia d’amore»; «Io
non posso sposarmi […] l’amore non buca, la morte sì». Dunque il finale di ogni
storia (recitata o reale), della vita stessa, del mondo intero, deve essere
tragico, perché «quando sembra che non ci siano ostacoli, nessun apparente
impedimento al compiersi della felicità, si verificano fraintendimenti, inceppi
che ci lasciano tristi, basiti, senza parole: che fregatura».
Lo spettacolo (gli spettacoli?) sapientemente costruito ed
egregiamente interpretato dai protagonisti, rappresenta allora una “palestra”,
una parentesi di riflessione sull’«umanità che cammina» verso la felicità o la
bellezza, portandosi dentro «un qualcosa, che non è propriamente una domanda»
ma un desiderio, un bisogno, una ricerca d’impossibile onnipotenza…«mentre a
casa, accartocciata in un angolo c’è la vita».
Elena Russo Arman e Cristian Gianmarini, nuovamente fianco a
fianco sui palcoscenici dell’Elfo, prestano la loro arte agli appartenenti a
questa umanità in cammino, assumendo personalità molteplici (tutte
perfettamente credibili pur nella loro carica umoristica) e riservando un
piccolo spazio al loro alter ego di
artisti, attori che riflettono sull’obbligo di assumere maschere e sostenere il
ritmo incalzante di una recitazione capace di garantire il colpo di scena, per
non essere «buttati via» come «pedine inutili sulla scacchiera» della triste
inutile impotenza umana.
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